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Il filmato di un reporter Usa a Falluja. Inchiesta del Pentagono

«Questo bastardo respira ancora». Marine spara a bruciapelo sul ferito

Orrore in una moschea dopo uno scontro a fuoco. Il guerrigliero era steso a terra. Il soldato: «Finge di essere morto». Poi lo sparo.

17 novembre 2004
Michele Farina
Fonte: Corriere della Sera 17/11/04

I dialoghi del video
--- "Vediamo" ---
Il tenente: "Gli avete sparato?"
"Affermativo, signore".
"Vediamo".

--- "Finge" ---
"Finge di essere morto".
"Sì, respira".
Dopo lo sparo: "Ora è davvero morto".

--- "Non lo so" ---
"Hei, ma quello non era già stato ferito prima?"
"Non lo so, non lo so".
Rimbomba la voce del primo marine nel salone vuoto: «Questo bastardo fa finta di essere morto». Il soldato americano che sta sparando sul prigioniero inerme Il secondo: «Yeah, sta respirando». Il primo ripete: «He’s faking he’s fucking dead». La telecamera inquadra un soldato che punta il fucile M-4 dall’alto in basso. A un metro di distanza, c’è un uomo disteso tra i calcinacci. Una tunica chiara, la testa quasi contro il muro. Intorno a lui non si vedono armi. «Sembrava ferito», racconterà più tardi il reporter che ha ripreso la scena, sembrava «andato» come gli altri iracheni immobili tra le colonne lucide della moschea. Il sole che entra dalle finestre. Si sente lo sparo. E la voce di un marine: «Beh, adesso è morto». Dai caffè di Bagdad ai tinelli d’America, le tv di tutto il mondo mandano in onda questo «contributo» da Falluja, il video girato sabato scorso dal reporter della Nbc Kevin Sites e diffuso ieri. Non la versione integrale, però, che mostra l’uomo a terra sussultare colpito alla testa, e poi i murales rosso sangue alle sue spalle.
Il Pentagono «indaga sull’episodio». Il soldato che ha sparato, sotto inchiesta, è sospeso. Il suo nome per ora non è reso noto. Due i testimoni: il reporter Kevin Sites, al seguito del Primo Reggimento, Terzo Battaglione Marines. E un iracheno, uno dei cinque guerriglieri che stavano nella moschea quel mattino. Era sotto un lenzuolo. Anche lui respirava, ma non ha «fatto finta di essere morto». Ha alzato le mani. Non gli hanno sparato.
Invece «quel bastardo» aveva soltanto la forza di respirare. Ora l’inchiesta militare stabilirà se chi ha ucciso ha agito per «autodifesa». Esatto, «autodifesa». Ma come: la Terza Convenzione di Ginevra, datata 1949, non stabilisce che i combattenti messi fuori combattimento da malattie, ferite o da qualsiasi altra causa «debbano essere trattati umanamente»? «L’unico muji buono è il muji morto», è la «convenzione» dei Marines sotto tiro nella città fantasma. Nel loro slang «muji» sta per «mujahidin», combattente della Jihad. Non è vero, anche un «muji» morto può essere «cattivo»: è successo il giorno prima che quel soldato americano sparasse su un ferito inerme in una moschea senza nome di Falluja Sud. Marines del suo stesso reparto - ha raccontato il reporter della Nbc - entrano in una casa dopo uno scontro. Tra i cadaveri di guerriglieri, ce n’è uno «minato». Una trappola, forse azionata da un telefonino. Il «kamikaze postumo» esplode uccidendo un marine e ferendone cinque. Chiaro? Anche questa è Falluja vista dal basso. Anche per questo le regole di ingaggio sono due paroline ripetute via radio: «Weapons Free». Grilletto libero. Si può sparare a qualsiasi cosa, perché tutto è considerato «ostile». Quasi tutto: dopo ore di scontri, tensione, feriti, sudore sotto gli elmetti, un reparto deve stanare un cecchino. Si sente un rumore tra le macerie. Non è il cecchino. E’ un gatto. «Posso sparare, Sir?», chiede il tiratore Usa. «Certo che no», risponde l’ufficiale.
Più difficile vedere un kamikaze in un gatto che in un uomo morente? Il video di Sites comincia con una squadra di Marines a piedi che giunge alla moschea tra gli spari. Già il giorno prima c’era stata battaglia: 10 miliziani uccisi. E cinque feriti: soccorsi, bendati. E lasciati lì. Passerà una squadra di recupero a prenderli e portarli via, avevano detto i Marines. Invece il giorno dopo, sabato, dalla moschea sparano di nuovo. Un plotone torna sul posto. Poco dopo, ecco il reparto con Sites. Lo guida un tenente. Lo informano che dentro ci sono muji . «Gli avete sparato?». «Affermativo, Sir». «Erano armati?». Alzata di spalle.
Dentro ci sono i cinque iracheni, gli stessi del giorno prima. Tre di loro risulteranno feriti due volte, venerdì e sabato. Il tenente e i suoi entrano. Due moribondi sono appoggiati a un muro, uno ha la kefiah arancione e barba bianca. Un marine arriva davanti all’uomo steso con la tunica. «Il bastardo finge di essere morto». Il soldato alza il fucile, il giorno prima è stato ferito a una guancia, l’hanno medicato e rispedito in battaglia. La convenzione di Ginevra è lontana dal suo mirino quanto Washington da Falluja. Sette notti di guerra gli hanno insegnato la disumanità. «Neppure un muji morto è un muji buono, figuriamoci uno che respira ancora».
Il soldato Usa che spara al prigioniero iracheno

Note: Leggi di guerra e prigionieri

LA CONVENZIONE DI GINEVRA La Terza Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra, datata 1949 e sottoscritta anche dagli Usa, stabilisce che quanti sono fuori combattimento perché malati, feriti o per altre cause debbano essere trattati «umanamente»
L’INCHIESTA DEL PENTAGONO
I comandi USA hanno annunciato un’inchiesta penale sul caso del ferito iracheno ucciso sabato a Falluja. Il comandante dei Marines in Iraq, generale Sattler, ha detto ieri che si dovrà stabilire se il soldato del Primo Reggimento, Terzo Battaglione (di cui non è stato diffuso il nome) ha «agito per autodifesa o in violazione della Legge sui Conflitti Armati»
IL SOLDATO INCRIMINATO
Il giorno prima era stato ferito lievemente a una guancia ed era stato subito rimandato in battaglia. Nello stesso giorno, un commilitone era stato ucciso quando i guerriglieri avevano fatto saltare in aria il cadavere di un compagno imbottito di esplosivo

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*** Il marine di Falluja non scandalizza gli Usa ***


Anche le associazioni dei diritti umani caute nel giudicare l’uccisione del ferito. Il Pentagono allarga l’indagine ma la stampa non dà risalto al caso.

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
NEW YORK - Il filmato choc del marine che spara alla testa di un iracheno ferito e disarmato in una moschea di Falluja ha avuto un effetto immediato. «Il Pentagono ha aperto un'indagine - conferma il generale George Casey, comandante della forza multinazionale in Iraq - non solo nei confronti del marine, sospeso, ma sulla morte degli altri quattro iracheni inquadrati nelle stesse immagini e sul comportamento di tutti i marines coinvolti nell'azione».
L'episodio risale a sabato scorso: il cameraman embedded della Nbc , Kevin Sites, filma un marine mentre spara a bruciapelo contro uno di cinque feriti inermi stesi all'interno della moschea. Il Pentagono sta indagando per stabilire se i quattro siano stati colpiti poco prima dell’uccisione del quinto ferito; se i marines abbiamo violato la Convenzione di Ginevra che impone di trattare «umanamente» i feriti di guerra e soprattutto se la tesi del soldato sospeso («ho ucciso per autodifesa») regga oppure no.
Ma l'indignazione provocata in Europa e nel mondo arabo dall'incidente non ha riscontro negli Stati Uniti. Dove tutti i grandi quotidiani nazionali, incluso il New York Times - tacciato di essere «liberal» e «antiBush» - non l'hanno ritenuto degno delle prime pagine. Eccezione: il Washington Post , che dopo il richiamo di due righe in prima di martedì, ieri ha preferito aprire con l’assassinio di Margaret Hassan. Come gli altri media del resto.
Chi temeva un altro «scandalo» come Guantanamo e Abu Ghraib - che hanno dominato per giorni i tg e le prime pagine - è rimasto stupito dalla cautela con cui persino gli avvocati per i diritti umani, tradizionalmente critici della guerra in Iraq, stanno trattando questo caso. «Ovviamente l'assassinio di un prigioniero ferito e disarmato è una violazione del diritto internazionale - afferma James Ross, responsabile legale di Human Rights Watch - ma se qualcuno si finge ferito o morto e usa questo stratagemma per ingannare e uccidere, ciò costituisce crimine di guerra e può giustificare l'azione del marine».
Cauta anche la portavoce della Croce Rossa Florian Westphal, secondo la quale «è impossibile giudicare l'incidente sulla base di immagini tv, per quanto sconcertanti esse siano». Nelle interviste ai media, intanto, i commilitoni fanno quadrato attorno al marine. «I guerriglieri imbottiti di tritolo, anche da morti, costituiscono un pericolo» affermano. Spiegando che il marine indagato «era stato ferito al volto il giorno prima» ed era «stressato, esausto, impaurito».
Nei dibattiti radio e tv brucia di più ciò che Usa Today definisce «la strumentalizzazione dell'incidente da parte dei media arabi, decisi a usare ogni mezzo per fomentare l'odio antiamericano». I commentatori si dicono «indignati» dalla decisione di Al Jazira e Al Arabiya di censurare l’uccisione della Hassan («per non mettere in cattiva luce i terroristi») trasmettendo invece, non stop, la versione senza tagli del video, in cui è persino possibile leggere il nome del marine stampato sullo zaino.
Negli Usa, dopo che il Pentagono ha ordinato alle tv di non trasmettere la versione integrale, tutti i network (uniti in un «pool» che li vincola a dividere le riprese girate dai loro corrispondenti embedded ) hanno preferito sfumare il volto dei marines e il loro nome, tagliando tutte le parole scurrili per non incorrere nell'ira dei censori.
Comunque andrà a finire, secondo gli addetti ai lavori, il marine non farà la fine del generale sud vietnamita Nguyen Ngoc Loan della celeberrima foto simbolo della guerra del Vietnam, realizzata da Eddie Adams nel febbraio del ’68. «Però è innegabile che l'incidente ha fornito ai guerriglieri iracheni un'enorme vittoria propagandistica - mette in guardia il New York Times - in un momento in cui l'esercito americano giura di aver fatto di tutto per evitare morti tra i civili».
Il video, ribatte il Pentagono, esiste proprio grazie alla decisione prebellica di ammettere giornalisti embedded in prima linea, per correggere l'immagine «distorta» sull'operato delle truppe Usa. E ieri tra i consiglieri di Rumsfeld erano in molti a interrogarsi sull'utilità del sistema.

Alessandra Farkas
Corriere della Sera 18/11/04

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