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Guai ai poveri

6 gennaio 2005
Ignacio Ramonet
Fonte: Il Manifesto

La mega-scossa tellurica di Sumatra e le successive gigantesche onde anomale che hanno colpito, il 26 dicembre scorso, le coste dell'Oceano indiano hanno provocato una delle catastrofi più colossali della storia. La tragedia umana - 150.000 morti, 500.000 feriti, 5 milioni di sfollati, secondo dati ancora provvisori - raggiunge un'entità raramente vista in passato. A ciò si somma il carattere internazionale del disastro: otto paesi asiatici e cinque paesi africani sono stati colpiti lo stesso giorno dal cataclisma, che tra l'altro avrebbe ucciso circa 10mila cittadini di altri 45 paesi del mondo. La presenza di occidentali, e l'elevato numero di vittime tra loro, hanno contribuito al riverbero planetario della catastrofe, avvenuta - per una sorta di terribile contrasto - nel pieno delle feste di fine anno. Quest'ultimo elemento ha suscitato una copertura mediatica eccezionale dell'evento, che non sarebbe avvenuta - ed è un peccato - se la tragedia fosse stata circoscritta alla sua sola dimensione asiatica.

Tutto ciò provoca un formidabile shock emotivo, che colpisce profondamente l'opinione pubblica occidentale. Una commozione del tutto legittima di fronte a tanto sconforto, a tanta devastazione, a tanta desolazione, che si è tradotta in una tenace volontà di aiutare e in una calorosa gara di solidarietà. Raramente in passato, secondo le organizzazioni umanitarie, si era manifestata una generosità di questa ampiezza - tanto pubblica che privata.

Questa solidarietà nei confronti di tutte le vittime dell'Oceano indiano ha permesso a molti dei nostri concittadini di scoprire, al di là del cataclisma, la realtà delle ordinarie condizioni di vita degli abitanti di quei paesi. E appare del tutto evidente che l'aiuto mobilitato, nonostante la sua notevole consistenza, sarà del tutto insufficiente per risolvere difficoltà strutturali.

Ricordiamo solo qualche fatto.

Una catastrofe «naturale» di identica intensità causa meno vittime in un paese ricco che in un paese povero. Per esempio, il sisma di Bam, in Iran, avvenuto esattamente un anno prima, il 26 dicembre 2003, di intensità pari a 6,8 gradi della scala Richter, ha fatto più di 30.000 morti. Ma, tre mesi prima, il 26 settembre 2003, una scossa più violenta - 8 gradi - sull'isola Hokkaido, in Giappone, aveva provocato solo qualche ferito e nessun morto. Altro esempio: il 21 maggio 2003, un terremoto di 6,2 gradi Richter colpiva l'Algeria e causava più di 3.000 morti. Pochi giorni dopo, il 26 maggio, un sisma più violento - 7 gradi - scuoteva tutto il Giappone nord-occidentale, senza provocare vittime.

Perché tali differenze? Perché il Giappone, come altri paesi sviluppati, ha i mezzi finanziari per applicare norme di costruzione anti-sismiche molto più costose. Siamo allora disuguali di fronte ai cataclismi? Non c'è il minimo dubbio. Ogni anno, le catastrofi colpiscono circa 211 milioni di persone. I due terzi vivono nei paesi del Sud, dove la povertà fa aumentare il grado di vulnerabilità. Un rapporto intitolato Ridurre i rischi di disastri, pubblicato il 2 febbraio 2004 dal Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (Undp), si chiede addirittura se è lecito continuare a parlare di catastrofi «naturali». L'impatto di un sisma, di un ciclone o di un'inondazione varia a seconda dei paesi. Spesso dipende dalle politiche di prevenzione applicate dalle autorità.

Se lo stesso tsunami si fosse prodotto nell'Oceano pacifico, il numero di vittime sarebbe stato molto minore, perché gli stati rivieraschi - su iniziativa di due grandi potenze, il Giappone e gli Stati uniti - hanno messo a punto un sistema di rilevazione e di allerta in grado di segnalare in anticipo l'arrivo di «onde assassine» e di permettere quindi alle popolazioni della costa di mettersi al riparo.

Ma l'acquisto, l'installazione e la manutenzione di un tale sistema costano assai cari. La catastrofe dell'Oceano indiano ci emoziona a causa delle sue dimensioni, della sua brutalità e anche perché questa sommatoria di tragedie umane si è prodotta in un singolo giorno. Ma se osservassimo, per un anno, questi paesi e i loro abitanti con la stessa curiosità che mostriamo oggi, assisteremmo - al rallentatore - a una catastrofe umana di entità ancora più tragiche. Basta sapere che, ogni anno, negli stati del golfo del Bengala (India, Maldive, Sri Lanka, Bangladesh, Birmania, Thailandia, Malaysia e Indonesia), diversi milioni di persone (soprattutto bambini) muoiono semplicemente perché non dispongono di acqua potabile e bevono acqua contaminata.

L'aiuto pubblico e privato promesso ai paesi colpiti dallo tsunami è attualmente di circa 3 miliardi di dollari. Bisogna gioire dell'entità di questa somma. Ma essa è ancora trascurabile di fronte ad altre spese. Per esempio, il solo budget militare degli Stati uniti è pari, ogni anno, a 400 miliardi di dollari... Altro esempio: quando la Florida è stata colpita, nell'autunno 2004, da una serie di cicloni che provocarono danni consistenti ma non paragonabili al disastro attuale dell'Oceano indiano, Washington ha sbloccato immediatamente un aiuto di 3 miliardi di dollari... Ad ogni modo, le somme promesse sono insignificanti rispetto alle necessità degli stati colpiti dallo tsunami.

Bisogna sapere che, secondo gli ultimi dati della Banca mondiale, il debito pubblico estero di cinque di questi paesi supera i 300 miliardi di dollari. E il rimborso di tale debito implica cifre gigantesche: più di 32 miliardi di dollari l'anno. Ossia una cifra dieci volte maggiore delle promesse di fondi «generosamente» annunciate in questi giorni. A scala planetaria, ogni anno i paesi poveri rimborsano, verso il Nord ricco, a titolo di debito, più di 230 miliardi di dollari. E' il mondo alla rovescia.

Si è parlato, in occasione dello tsunami, di una moratoria del debito dei paesi colpiti. Ma non è tanto di una moratoria che c'è bisogno: il debito va semplicemente cancellato, allo stesso modo in cui gli Stati uniti hanno imposto ai loro partner del Club di Parigi la cancellazione del debito dell'Iraq, paese che occupano militarmente. Se si può fare per l'Iraq - che è un paese ricco di petrolio e gas -, perché non si potrebbe fare per paesi infinitamente più poveri e colpiti peraltro da una catastrofe di dimensioni bibliche?

Sempre secondo l'Undp, «su scala planetaria, mancano circa 80 miliardi di dollari l'anno per garantire a tutti i servizi di base», ossia l'accesso all'acqua potabile, un tetto, un'alimentazione decente, l'educazione primaria e le elementari cure mediche. E' l'ammontare esatto del budget supplementare che il presidente Bush ha appena chiesto al Congresso per finanziare la guerra in Iraq.

L'enormità dei bisogni mostra, in termini di paragone, che la generosità umanitaria, per quanto ammirevole e necessaria, non è una soluzione a lungo termine. L'emozione non può sostituire la politica. Ogni catastrofe rivela, come una sorta di lente di ingrandimento, l'angoscia strutturale dei più poveri, di quanti sono vittime ordinarie dell'ineguale e ingiusta ripartizione delle ricchezze nel mondo. E' per questo che, se veramente vogliamo che l'effetto dei cataclismi sia meno devastante, bisognerà cercare soluzioni permanenti. E favorire, per tutti gli abitanti del pianeta, una ridistribuzione compensatoria.

Sembra sempre più indipensabile, per affrontare situazioni d'emergenza come questa, e soprattutto per costruire un mondo più giusto, creare una sorta di Iva internazionale. Questa idea di «tassa planetaria» - prelevata sui mercati di cambio (Tobin tax), sulle vendite d'armi o sul consumo di energie non rinnovabili - è stata presentata all'Onu il 20 settembre 2004 dai presidente brasiliano Lula, dal cileno Lagos, dal francese Chirac e da Zapatero, primo ministro spagnolo. Più di cento paesi, ossia più della metà degli stati del mondo, appoggiano questa felice iniziativa.

Perché non far leva sull'emozione suscitata universalmente dalla catastrofe dell'oceano indiano per reclamare l'implementazione immediata di questa tassa internazionale di solidarietà?

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