"Ogni minuto potrebbe essere l’ultimo"
Intervento al dibattito sulle condizioni dei civili a Gaza
Sono qui per portare la voce di una donna palestinese che vive in Europa e che, attraverso un dialogo durato quasi un anno, mi ha raccontato la sua vita spezzata e quella della sua famiglia ancora intrappolata nella Striscia di Gaza. La chiamerò Lubna. Non è un nome fittizio, è quello con cui lei stessa si è presentata.
Lubna mi scrive per la prima volta il 21 settembre 2024. Le sue parole fanno male:
“We have been suffering for many years, especially in the Gaza Strip, but what is happening now is more than any human being can bear. My mother suffers from cancer, they lost everything – the house, the lands, the savings – in this fierce war. Every minute may be their last.”
Tradotto: «Soffriamo da tanti anni, soprattutto nella Striscia di Gaza, ma quello che accade ora è più di quanto qualsiasi essere umano possa sopportare. Mia madre ha il cancro, hanno perso tutto – casa, terre, risparmi – in questa guerra feroce. Ogni minuto potrebbe essere l’ultimo.»
Parole come queste non sono semplicemente testimonianze individuali. Sono la radiografia di un popolo, ridotto a vivere tra macerie e attese infinite.
La burocrazia della sopravvivenza
Lubna mi racconta che per uscire da Gaza attraverso il valico di Rafah occorrono dai 5.000 ai 12.000 euro a persona. Il passaggio è gestito da agenzie di viaggio che operano come intermediari. Lo scrive con amarezza:
«Pagare per avere diritto alla vita».
È la fotografia di un mondo che non impara nulla dalla storia. Neanche le tragedie più grandi dell’umanità recente come l’Olocausto hanno insegnato che nel mondo ci sono vittime carnefici e spettatori e oggi, gli spettatori, siamo noi. Non più i diritti a garantire la dignità, ma la disponibilità di denaro. Per sua madre malata di cancro e suo padre anziano non c’è alcuna possibilità senza quel denaro. È la burocrazia della sopravvivenza, dove un confine diventa il muro più alto non solo per la politica, ma per la coscienza.
La solitudine morale
La tragedia non è fatta solo di bombe e fame, ma di silenzio. Il 12 agosto 2025, quasi un anno dopo il nostro primo scambio, mi scrive:
“The situation, especially since last March, can't be described as catastrophic because the catastrophe is too small to describe; it's hell on earth. I am fighting alone in an unjust world.”
«La situazione, soprattutto dallo scorso marzo, non può essere definita catastrofica perché la catastrofe è troppo piccola per descriverla; è l’inferno in terra. Sto lottando da sola in un mondo ingiusto.»
Questa è la solitudine morale di chi non ha più voce né ascolto.
Il ruolo del giornalismo
Il compito di un giornalista non è sostituirsi alla diplomazia né cadere nella retorica, ma distinguere, verificare, contestualizzare. Per questo le ho chiesto apertamente: la tua famiglia ha mai avuto contatti con Hamas? Era una domanda scomoda, ma necessaria. La sua risposta è stata netta:
“My family has no military affiliation at all, neither to Hamas nor to any other group. My father returned to Gaza in 1994 after the Oslo peace process to start a new life.”
«La mia famiglia non ha alcuna affiliazione militare, né con Hamas né con altri gruppi. Mio padre è tornato a Gaza nel 1994 dopo il processo di Oslo per iniziare una nuova vita.»
Questa risposta mette a fuoco una verità che troppo spesso sfugge al dibattito occidentale: a Gaza non vivono solo miliziani. Vivono studenti, medici, professori, padri e madri che vogliono soltanto crescere i propri figli.
Le perdite familiari
La tragedia assume i contorni più crudeli nei ricordi personali. Lubna mi racconta di sua cugina Hala, poetessa e madre di quattro figli. Hala aveva creduto alla promessa di una “zona sicura” indicata dall’esercito israeliano. Il giorno dopo, l’edificio di cinque piani in cui si era rifugiata è stato bombardato.
“We lost Hala, her husband, her daughters, her in-laws. Only Youssef and Yahya remained alive.”
«Abbiamo perso Hala, suo marito, le sue figlie, i suoceri. Solo Youssef e Yahya sono rimasti vivi.»
Cosa significa crescere tra le macerie sapendo che il mondo ha guardato altrove?
Le statistiche non bastano
Secondo i dati delle Nazioni Unite, oltre l’80% della popolazione di Gaza è sfollata. Le infrastrutture sanitarie sono al collasso. Amnesty International e Human Rights Watch parlano apertamente di violazioni del diritto internazionale umanitario.
Eppure le statistiche non bastano. È la voce di Lubna, la sua frase scritta di notte, che racconta più di mille report:
“Half of the people there have been killed and the other half wish to die. Their future, past and present have been erased.”
«Metà della gente lì è stata uccisa e l’altra metà desidera morire. Il loro futuro, il loro passato e il loro presente sono stati cancellati.»
La responsabilità internazionale
Perché alcuni Paesi europei hanno aperto corridoi umanitari e altri sono rimasti fermi? Perché il diritto internazionale riconosce la protezione dei civili, ma i civili continuano a morire sotto le bombe e nella fame?
Qui non si tratta di prendere parte a uno schieramento politico. Si tratta di domandarsi quale sia il ruolo delle democrazie occidentali di fronte a un disastro che mina le fondamenta stesse del diritto internazionale.
La speranza
Ho scritto a Lubna, in uno dei nostri ultimi scambi:
“I hope international journalists will be allowed to enter Gaza and document what is happening. I also hope this horror ends soon — and that the world knows the truth.”
«Spero che ai giornalisti internazionali sia permesso entrare a Gaza e documentare ciò che sta accadendo. Spero anche che questo orrore finisca presto — e che il mondo conosca la verità.»
Perché alla fine il mio mestiere si riduce a questo: non smettere di raccontare.
E raccontare significa credere che la voce di una donna, anche se soffocata dalle bombe, possa valere più del silenzio di mille muri.
Il rischio dell’oblio
C’è un rischio peggiore delle bombe: l’oblio. La rassegnazione di chi, in Europa, pensa che “sia sempre stato così”. Lubna lo sa, e per questo mi scrive, quasi implorando:
“What is happening in Gaza must be documented by the international press.”
«Quello che accade a Gaza deve essere documentato dalla stampa internazionale.»
E qui arriviamo a un punto cruciale. Da mesi i giornalisti stranieri non possono entrare liberamente a Gaza. Le poche testimonianze che filtrano sono controllate, frammentarie, a volte ostacolate deliberatamente. Ma proprio per questo il nostro mestiere diventa essenziale: in una guerra dove la narrazione è un’arma tanto potente quanto le bombe, raccontare non è soltanto un dovere professionale. È un atto di resistenza civile, un gesto che appartiene al senso stesso dell’umanità: la solidarietà con il più debole.
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