Gesù e la pace
Gesù e la pace
di Enrico Peyretti
Pubblicato nel n. speciale di Confronti (www.confronti.net) “Nei nomi di Gesù”, settembre 2006
La fuga nell’interiore
«Quanta pace potremmo godere se non volessimo immischiarci tanto ai detti e ai fatti degli altri, assolutamente inutili per la nostra vita spirituale! (…) Beati i semplici, perché avranno abbondanza di pace». Così leggiamo nella Imitazione di Cristo (I,XI,1, e così in altri passi: p. es. I,VI,1; II,I,4; III, XXIII), che consigliava di «non avere nessun contatto con il consorzio umano» e di essere «morto agli affetti verso persone care» (III,XLII,1). Diretto a monaci e preti, questo classico testo che ha formato generazioni di cristiani, (ad esso si ispirava anche Dag Hammarskiöld, grande cristiano rigorosamente impegnato nella politica alta) , presenta una pace di Cristo che non è più la nostra. Anche per i monaci, oggi la pace non può essere tutta e solo interiore se non è anche politica, dei popoli. A Thomas Merton i superiori proibirono di pubblicare il su libro , nel 1962, perché un monaco non deve occuparsi di politica: egli eluse il divieto (come fece anche don Mazzolari diffidato dallo scrivere) e lo fece circolare ciclostilato (a stampa lo abbiamo solo oggi) e si occupò di politica, restando autentico monaco.
Pace, politica, Gesù
Oggi, quando ci scambiamo la pace durante l’eucarestia, non pensiamo soltanto alla pace personale interiore, ma anche alla pace nelle relazioni e nelle strutture tra le persone e tra i popoli. E questa pace non è più per noi una temporanea fortunata assenza di guerra e di conflitti personali, non è più la statica tranquillitas ordinis di S. Agostino, ma è la dinamica capacità di trasformazione nonviolenta dei conflitti.
Che c’entra Gesù con questa pace? Egli è una delle grandi fonti spirituali di tale capacità, come afferma anche Gandhi ed altri cercatori di pace non cristiani. Ma Gesù è stato anche inteso come ispiratore di guerre. Lasciamo stare certi estremismi storici, dalle crociate alle guerre di religione, mettiamo da parte la religione evangelicale (o cristianoide) a cui ha voluto attingere oggi l’Impero per giustificare la sua guerra “infinita”, e chiediamoci se, alla fonte della tradizione che ci dà conoscenza di lui, e nell’intima unione vitale con lui nella fede, Gesù comunica pace, e quale tipo di pace, oppure lotta, e quale tipo di lotta.
Non ho competenza per fare l’esegesi dei vari passi evangelici, a prima vista divergenti e opposti: Gesù dice beati i miti (nonviolenti), che «erediteranno la terra» e i costruttori di pace, «figli di Dio» (Mt 5, 5.9); è venuto a portare non la pace ma la spada e la divisione (Mt 10,34); invita i suoi, quando precipita la sua tragedia, a vendere il mantello e comprare una spada, ma è deluso perché lo intendono alla lettera (Lc 22,36-38); intima di riporre l’arma, perché è causa di rovina per chi la usa (Mt 26,52 e Gv 18,11). Per alcuni Gesù avrebbe provato la tentazione della violenza armata, prima di decidersi per la via nonviolenta. Qualcuno legge nei noti paradossi del discorso della montagna (dare l’altra guancia, fare un altro miglio, consegnare anche la tunica) precise anticipazioni di alcune tecniche nonviolente elaborate oggi , (o forse vuole vedervi troppo?) e così supera la tradizionale lettura sacrificale di quei consigli. Alberto Maggi scrive che molti hanno provato, ieri e oggi, a impadronirsi di Gesù: è stato fatto re, sacerdote, operaio, rivoluzionario, poi tranquillante per la New Age, ultimamente un ebreo tradizionale. Oggi c’è un utilizzo di Gesù pacifista? Non mi pare. Non lo vedo adottato e riduttivamente stabilito a icona del movimento attuale per la pace, in cui sono presenti tanti cristiani e tanti non cristiani, in cui c’è una vigilanza critica sulle oscillazioni delle chiese nel decidersi per la pace, in cui anche altri modelli, come il Buddha, forniscono una spiritualità di pace.
Soldati di Cristo
Per merito di Sergio Tanzarella abbiamo la prima traduzione italiana dell’opera classica di Harnack, Militia Christi, su cristianesimo antico e servizio militare. In qualche misura il cristianesimo ha assorbito nella sua organizzazione caratteristiche militaresche, cioè la visione della fede come combattimento in una guerra santa da parte dei “soldati di Cristo” (oggi non so, ma questo era il titolo conferito a noi bambini con la cresima). In effetti, nei Vangeli, nell’Apocalisse, in Paolo si trova la metafora militare, che ha l’effetto di rendere familiari immagini e azioni dell’universo militare tanto lontano dal vangelo. Anche a causa delle molte conversioni nell’esercito, la fede cristiana è intesa come militanza nell’esercito di Cristo. Vi sono importanti eccezioni (Massimiliano e Marcello, obiettori martirizzati), ma quella, per Harnack, è la linea, che si compirà nella svolta costantiniana. Il Dio cristiano è riconosciuto come Dio di guerra e di vittoria. I più anziani di noi ricordano quel grido di guerra che usava nell’Azione Cattolica: «Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat!» (mi dicono che si sente ancora!!). Ciò che ieri sembrava esprimere la fede, oggi la umilia. L’antica metafora militare della vita cristiana non restava innocente. Origene dice che i cristiani fanno più e meglio che combattere, pregano Dio per la vittoria! Pax romana e pace di Cristo finiscono per identificarsi!
Ci furono obiettori e disertori, ma molti saranno gli esempi storici di violenze sacre e sacralizzate. Per tutto ciò le chiese cristiane, salvo minoranze, hanno evitato fino ad oggi la scelta chiara della nonviolenza evangelica, quasi allarmate perché tale opzione, in effetti, toglie la possibilità di confidare ancora nella guerra, seppure come extrema ratio. Evitare l’opzione nonviolenta, o anche solo prendere le distanze dal pacifismo, significa volersi riservare la possibilità morale della guerra. Come nel ‘500 la riforma evangelica scosse la chiesa, oggi la chiesa contiene i fermenti di una necessaria riforma pacifica e nonviolenta assai più decisa.
Gesù nonviolento forte
Dobbiamo distinguere bene pacifismo e nonviolenza. Il pacifismo, quando è autentico, ripudia la guerra, la più vistosa delle violenze, ma non combatte altrettanto le violenze più profonde, strutturali e culturali, radici della guerra. La nonviolenza non è mera astensione dalla violenza, ma ricerca della indipendenza interiore dalle culture violente, è lotta coraggiosa e costosa alle violenze strutturali, non si limita a deprecare la guerra, ma assume e conduce i conflitti con la forza dell’anima (satyagraha) e l’unità popolare, metodi efficaci alternativi alla violenza, e testimonia questa possibilità anche quando non ha un pieno successo. La nonviolenza è tutto l’opposto di cedimento e rassegnazione. È anche costrizione dell’avversario violento a desistere dall’ingiustizia, rendendogli il dominio più costoso del compromesso o della rinuncia. Il perno dell’eredità storica di Gandhi è la scriminante tra la nonviolenza del debole e la nonviolenza del forte.
L’immagine prevalente e complessiva di Gesù non è certo quella del pacifista che evita il conflitto, né di chi si astiene dalla violenza per mancanza di coraggio, né di chi per amore della tranquillità interiore si astrae dai turbamenti del mondo (come l’autore della Imitazione di Cristo). Nei conflitti politici coinvolgenti il suo popolo, Gesù non approva la violenza degli zeloti (presenti e non espulsi dal suo gruppo), ma neppure si astiene dal criticare i poteri politici e religiosi, ed arriva fino a provocarne e patirne la reazione violenta.
Sono impressionanti le invettive (tutto Matteo 23, coi paralleli in Marco e Luca) con cui Gesù, che non colpevolizza mai i peccatori, si scatena contro i dirigenti religiosi ipocriti, formalisti e privi di misericordia: li sferza senza alcuna prudenza, senza mezzi termini, con insulti da codice penale. È come un proclama che li delegittima davanti al popolo. Infatti sarà accusato anche di sobillare il popolo (Lc 23, 5). Dicano gli esegeti se è tutta accentuazione postuma degli evangelisti. Certo, ci testimoniano un Gesù che sa avere parole di dura verità, un Gesù per niente molle e cedevole, eppure ricco di amore universale, libero e puro dalla volontà di imporsi per le vie del potere e della violenza. Gesù è nonviolento anche nel «dire la verità al potere», come Gandhi, o Luther King. La nonviolenza è forza. Se c’è violenta luce di verità nel giudizio di Gesù sul potere, la risposta del potere è la violenza delle false accuse, della tortura fisica e della morte infamante. Gesù affronta questa plurima violenza con totale indipendenza da essa, con qualità umana tutta alternativa, e transustanzia in amore l’odio che lo colpisce, in amore anche per chi lo colpisce, ama i suoi nemici con l’amore che ha insegnato ai discepoli, che non giudica meriti e colpe, e crea la possibilità che anche chi fa il male comprenda il bene (possibilità forse significata nell’esclamazione del centurione dopo la sua morte, nei tre sinottici, e nel buon ladrone di Luca).
Pace con la morte
C’è una guerra, che tutti abbiamo da combattere. Una guerra più dura di quella con gli avversari umani, anche i più malvagi. È la guerra contro il vuoto, il nulla, il non-senso che minaccia l’esistenza, il male impersonale. La morte onnipresente, che ogni cosa minaccia di nullificare, è la sintesi di tutto ciò. Gesù porta una pace in questa lotta con la morte? Francesco chiamerà sorella la morte che per Paolo è ancora l’ultima nemica. Gesù incontra la morte in tutta la sua violenza inaccettabile, anche lui ne è sconvolto dalle fondamenta di senso, come dicono le sua grida e i suoi silenzi sulla croce. Eppure, per un fiume di generazioni, Gesù è diventato la possibilità di morire: «Andiamo in pace», furono le ultime parole di Benedetto Calati e di chissà quanti altri cristiani. La pace con la morte non è la rassegnazione stoica, non è la riduzione razionalistica del suo scandalo e della sua offesa a fenomeno naturale. La pace di Gesù con la morte è opera di una forza più grande della morte: una fiducia attiva, il consegnarsi totalmente non al fato necessario, ma alla vita che ci precede e ci avvolge, gridando: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (solo Luca 24, 46, dal salmo 31). Quella forza è l’amore, che persiste anche nella buia perdita di sé, e fa della perdita un dono, un libero darsi agli altri. E questo darsi è un vivere, anche nel morire. Ed è una vittoria, l’unica vittoria che non semina umiliazione e vendetta, ma liberazione e vita. Perciò i suoi hanno saputo, e noi sappiamo, che Gesù è risorto e vivo, e ci dice: «Io vivo e voi vivrete» (Gv 14, 19). Gesù, innocente, prendendo su di sé la morte artificiale della violenza umana, ha violato l'orrenda legge, ha capovolto il senso della morte, ci ha restituito la dignità del vivere possibile, la speranza e la promessa della vita senza morte.
Gesù si difende dalla morte non, come fa l’umanità bellicosa, rigettandola sull’altro e raddoppiandola, senza mai liberarsene, ma se ne difende con la vita, con la pienezza della vita, e col seminare una vita invincibile. Egli chiama «vita eterna» questa vitalità, che non verrà dopo la morte, ma già ora ci anima, anche se dovrà, come è stato anche per lui, passare nel cunicolo mortale perché sia rivelata la nuova nascita.
Enrico Peyretti
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