Nel 60° dell'uccisione: 30 gennaio 1948-2008

Attualità di Gandhi: nonviolenza strada feconda di pace

Gandhi fallito? - L'azione vale per la fecondità - Con una Beretta italiana - Libri di e su Gandhi
12 gennaio 2008
Fonte: Pubblicato senza bibliografia su “Messaggero di sant’Antonio”, gennaio 2008, pp. 16-17 e 19 col titolo "Nonviolenza strada feconda di pace"

Gli anniversari rotondi sono occasioni per ripensare fatti storici significativi. Corrono però il rischio di imbalsamare in una nicchia del passato esperienze di valore che possono agire nel presente e nel futuro. Penso al sessantesimo dell’uccisione di Gandhi, avvenuta il 30 gennaio 1948, e al quarantesimo della morte di Aldo Capitini (potremo parlarne più avanti), il 19 ottobre 1968.
C’è un’attualità del loro pensiero e della loro azione? Guardando quanta violenza affligge il mondo di oggi, la prima superficiale risposta direbbe di no. Ma proprio la minaccia di distruzione nucleare totale, che ancora incombe sui popoli, e le vaste sofferenze provocate dall’ingiustizia, rinviano sempre di nuovo all’alternativa indicata dai maestri della nonviolenza. Capitini diceva che la liberazione dalla violenza è «il varco attuale della storia», cioè che la storia non ha futuro se i popoli e i politici non scelgono la nonviolenza positiva nelle relazioni umane, nella gestione dei conflitti, nell’uso dei beni della terra.

Gandhi fallito?
Gandhi può essere giudicato come un fallito, in patria e fuori. L’India di oggi non è quella del suo sogno: bomba atomica, politica di potenza, permanente divisione in caste, consumismo, disuguaglianze. Il mondo non è pacifico, le relazioni tra gli stati includono regolarmente la minaccia armata e il calcolo del profitto. Eppure Gandhi non solo è indimenticabile – come scrive Pontara «una volta che si è incontrato Gandhi è difficile liberarsene» - ma, se appena proviamo a conoscerne l’azione e il pensiero, pur senza condividerne tutti gli aspetti particolari, come è naturale per ogni esperienza nella storia, incontriamo una proposta, praticata effettivamente in una esperienza di popolo, che è una via di scampo dalla catastrofe che le politiche violente preparano all’umanità. Anzi, di più, troviamo in Gandhi una altezza umana che lo pone tra i pochi massimi maestri dell’umanità, nelle diverse culture e religioni.
Attraverso Gandhi è passato al nostro tempo uno spirito antico (la nonviolenza è «antica come le montagne», non è una sua invenzione), che però si è incarnato in modo nuovo, in mezzo al Novecento, il secolo più violento della storia umana. La mitezza costruttiva, l’azione nonviolenta, nei secoli prima di Gandhi era quasi soltanto una virtù personale, nei rapporti diretti, nella morale privata. La politica era praticata e teorizzata come amorale, mirante alla potenza con qualunque mezzo utile (machiavellismo), oppure come guidata da una morale differente da quella interpersonale (Max Weber). Gandhi ha mostrato nei fatti, non solo nella riflessione, che le regole essenziali dell’agire giusto sono le stesse nella vita privata e nella vita politica, nei rapporti tra grandi gruppi umani. Questo è giudicato dagli studiosi il maggiore apporto gandhiano alla storia umana. L’opera di Gandhi non è soltanto la liberazione della sua patria dal duro colonialismo inglese, ma ancor più l’apertura di una via concreta per la liberazione dell’India e di ogni popolo da violenza e ingiustizie.

L’azione vale per la fecondità
Ma quest’opera non è dunque fallita? Stiamo attenti. Le cose più profonde non si misurano col metro della rapida efficacia. Il valore dell’azione è nella sua fecondità, più che nel risultato visibile. L’azione profonda di Gandhi continua nel mondo, e nella stessa sua India, in modi non clamorosi, ma tenaci, costanti, che hanno dato frutti anche riconoscibili nelle diverse parti della geografia e della storia umana, davanti a vari gravi problemi: Badshah Khan nell’islam, che l’opinione volgare e manipolata considera religione violenta; Martin Luther King nel cristianesimo, che grazie a Gandhi ha riscoperto la dimenticata nonviolenza evangelica; Nelson Mandela, Desmond Tutu nella cultura africana, col portare il Sudafrica fuori da un terribile razzismo con un’opera di verità e riconciliazione, senza metodi violenti. E questi sono soltanto alcuni nomi più noti, la cui azione poggia sulla base di movimenti gandhiani che percorrono il nostro tempo, ora emergendo con energia (nel 2003, il movimento pacifista è stato considerato, con una certa esagerazione, la seconda potenza mondiale davanti agli Usa del bellicoso Bush), ora scorrendo come fiumi carsici. Chi conosce un poco le associazioni e le “case per la pace” in tante città e centri minori, che svolgono con mezzi poveri attività continue di ricerca, formazione, azione; chi fa attenzione agli istituti e reti internazionali, anche a livello scientifico rigoroso, di elaborazione delle condizioni della pace positiva, e ai libri e periodici che fanno ricerca e divulgazione sulla pace nonviolenta, vede che l’impulso gandhiano è ben vivo, anche se non ha trasformato radicalmente il mondo. Questo impulso spinge movimenti di base in tutti i paesi del mondo, in tutte le culture, a sviluppare metodi ed esperienze di lotte nonviolente per la giustizia, e a riscoprire nella storia queste lotte, che la cultura dominante non ha saputo vedere, presenti in tutti i tempi, quindi sempre possibili (vedi in rete la bibliografia storica da me curata Difesa senza guerra).
Non si tratta assolutamente di fare un mito di Gandhi. Ci sono in lui anche lati particolari che non possiamo fare nostri, ma ciò che conta è la grande sostanza della sua ispirazione. La quale agisce anche dove non sembra. Il mito della violenza come spallata risolutiva (l’infelice espressione marxiana della «levatrice della storia»; ma nessuna levatrice è violenta!), è tramontato, perché la storia ha dimostrato la sua sterilità, ma anche perché Gandhi seppe leggere subito, con la massima lucidità, sia l’esperienza sovietica, sia la ferocia nazista, sia la follia atomica.
A me pare davvero che un buon giornalismo culturale dovrebbe, con inchieste più attente, rendere conto di queste realtà promettenti, nel mondo di oggi sempre sull’orlo dell’autodistruzione. Attuale non è ciò che è vincente, che corre facilmente, non è il “pensiero unico”: attuale è ciò che, nelle condizioni di oggi, può dare qualità e futuro umano alla nostra storia.

Con una Beretta italiana
L’occasione immediata di questo rapido insufficiente richiamo del lascito di Gandhi, è l’anniversario della sua morte. Egli fu ucciso, con una pistola Beretta italiana, da un fanatico indù, per la sua apertura ecumenica agli indiani musulmani e la sua opposizione alla lacerante divisione della «madre India» tra indù e musulmani (il Pakistan). Allora riascoltiamo come seppe morire, preparato da tempo ad offrire tutto se stesso alla verità: «Prego costantemente di non provare mai nessun sentimento di rabbia verso i miei calunniatori; anche se cadessi vittima del piombo di un assassino, prego di poter rendere l'anima con il nome di Ram sulle labbra». Quando l’attentatore gli sparò, egli cadde invocando il nome di Dio: «He Ram». Anni prima aveva detto: «Una persona che ha rinunciato alla violenza dovrebbe pronunciare il nome di Dio a ogni respiro», ed egli lo faceva da più di venti anni, tanto che adesso il nome si ripeteva da sé anche durante il sonno. «Io sarò contento se, quando qualcuno venisse per uccidermi, potessi restare calmo, lasciarmi uccidere e pregare Dio che mi conceda di avere un buon sentimento per chi mi uccide» (17 luglio1947).
Gandhi si chiedeva, dubitando: «Ho in me la nonviolenza dei forti? Solo la mia morte lo dirà. Se morirò pregando per il mio assassino e conservando in cuore il sentimento della presenza di Dio, allora soltanto sarà possibile dedurne che io ho la nonviolenza dei coraggiosi». Commenta Jean-Marie Muller : «Noi sappiamo oggi quello che lui stesso ignorava : egli possedeva realmente in sé la nonviolenza dei forti», quella forza di verità e di vita che sola vince il male, che sola è radicale e potente alternativa alla violenza, che sola emana dallo spirito vivo, più forte anche della morte.

Enrico Peyretti, 5 dicembre 2007

- Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1996
- Giuliano Pontara, L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, Ed. Gruppo Abele 2006
- Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Prefazione di Roberto Mancini, traduzione di Enrico Peyretti, Plus, Pisa University Press 2004
- Fulvio Cesare Manara, Una forza che dà vita. Ricominciare con Gandhi in un’età di terrorismi, Ed. Unicopli 2006
- Gandhi, Sarvodaya. Un’economia a servizio degli ultimi, del 1908, pubblicato nella rivista Satyagraha, n. 6, dicembre 2004, dal titolo La gioia della povertà conviviale, a cura di Rocco Altieri. Plus, Pisa University Press, pp. 17-37 (il termine Sarvodaya significa benessere di tutti).
- Gandhi, Una guerra senza violenza. La nascita della nonviolenza moderna, Libreria Editrice Fiorentina 2005 (titolo originale Satyagraha in South Africa, 1924-1925).
- Enrico Peyretti, Esperimenti con la verità. Saggezza e politica di Gandhi, Pazzi editore 2005

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