Una foto simbolo, scattata in Vietnam l’8 giugno 1972, mobilitò il pacifismo americano

Kim, la «bimba del napalm» ustionata a nove anni, racconta la sua storia

Mi si avvicinò e mi disse: «Sono stato il capitano che ha coordinato il bombardamento al napalm. Mi vuoi perdonare, Kim?». Gli tesi la mano, lo fissai dritto negli occhi e gli dissi: «Io la perdono».
Roberto Rosano

Kim Phúc Phan Thi, la «bimba del napalm» ustionata a nove anni. E una foto, scattata l’8 giugno 1972, che ha fatto il giro del mondo. Uno scatto divenuto immagine iconica del pacifismo americano: la corsa disperata di una bambina terrorizzata che aveva perso tutto nell’incendio del suo villaggio.

Kim Phúc Phan Thi aveva nove anni, l’8 giugno 1972, quando il suo dolore insopportabile, la sua corsa affannata intanto che il napalm le bruciava i vestiti e la carne, furono catturati da uno scatto che divenne immagine iconica del pacifismo americano. Dal 1997 Kim è ambasciatrice dell’Unesco, vive col marito Toan nei pressi di Toronto. Nei giorni scorsi ha presentato il suo libro, «Il fuoco addosso» (edito da Scripsi) presso il Sermig di Torino. E, subito dopo, ha concesso un’intervista speciale a «La Voce e il Tempo».

La foto di una bambina in fuga da un attacco al napalm può davvero causare la fine di una guerra?

Credo abbia colpito molto quella corsa disperata di bambini terrorizzati, che avevano perso tutto nell’incendio di un villaggio. Una bambina ripresa lungo una strada, completamente nuda, ustionata dal napalm e alle spalle dei soldati, il fumo delle bombe… Sì, una foto può causare la fine di una guerra, secondo me, può dare un prezioso contributo.

Com’era quella bambina prima dell’8 giugno 1972?

Prima che il napalm cadesse sul mio villaggio ero una bambina che non sapeva cosa fosse una guerra. Ero una bambina felice. La ferita più grave che conoscevo era un graffio al ginocchio dopo una corsa nei campi o sul sentiero sterrato per andare a scuola. Chi ha il tempo di pensare alla guerra, quando puoi giocare ad arrampicarti sugli alberi di guava? Kim Phúc significa «felicità dorata», ed io vivevo proprio quella condizione… Mi sentivo una principessa. Puoi sentirti una principessa anche quando non hai un castello, ma puoi mangiare la cháo long di mamma, una zuppa calda che a te sembra la migliore del mondo.

Qual è il primo ricordo di quella mattina?

Ci dissero di correre al tempio. C’era una pioggia battente e gli attacchi aerei sempre più vicini. A noi sembrava un gioco, un’avventura. Invece caddero quattro bombe, delle vere bombe. Di quelle che fanno davvero male e uccidono i papà e le mamme. Una coltre di fumo aveva cancellato l’orizzonte e il cielo era diventato rosso fuoco. Non mi sembrava più un’avventura. Volevo tornare a casa. Un soldato a labbra strette ha esclamato: «Gesù Cristo!». E poi qualcuno ha gridato: «Fuori, presto! Chay ra mau len! Sta per saltare tutto in aria! Veloci, via, scappate, presto!». Gli ubbidimmo.

E avete cominciato a correre sulla Route 1 di Trang Bang…

Vedemmo l’inferno sorgere dagli abissi e straripare sulla Terra. Rimasi paralizzata in mezzo alla strada. A bocca aperta vidi passare l’aereo sopra le nostre teste, una grossa pancia grigia da cui caddero quattro bombe nere come il carbone. Non piombarono giù in un attimo. Fluttuarono lentamente in aria e vidi che tutto si dissolveva nell’esplosione. L’acqua bolle a cento gradi centigradi. Il napalm raggiunge tremila gradi. Nóng quá! Brucia, brucia! I miei vestiti erano bruciati. Un reporter, che dopo scoprii essere Christopher Wain della Bbc, mi versò in bocca qualche goccia d’acqua della sua borraccia. Poi me la versò tutta addosso. Soltanto che il napalm infiamma ogni particella d’ossigeno, perciò Wain fece la cosa peggiore che potesse fare e il mio corpo ricominciò a bruciare. Crollai priva di sensi.

E a raccoglierla da terra fu Nick Ut, che, poco prima, aveva scattato quella foto potente. Insomma, lei divenne più forte del napalm. Più forte di Nixon. Più forte di Harry Robbins. Lei ha detto di non avere più odio nel cuore. Ma la paura le è rimasta? Ha paura che l’inferno tracimi di nuovo sulla Terra?

Prego per il mondo che assorba il messaggio che io e tanti altri abbiamo condiviso. Prego che tutti su questa Terra possano trovare l’amore, la pace e il perdono. Se gli individui lavorano in questo senso, ciascuno nel proprio cuore, c’è speranza che l’inferno rimanga al suo posto.

Quel soldato sibilò tra i denti «Gesù Cristo!», mentre il fuoco cadeva sulla Terra. All’epoca lei non sapeva chi fosse, ma, in seguito, cosa ha reso Gesù di Nazareth così affascinante ai suoi occhi?

Credo sia stata la relazione. Il sacrificio. Il sacrificio del Cielo per la Terra. La tradizione in cui sono cresciuta prescrive di cercare di fare il bene. Io ho cercato di essere la persona migliore che potevo, ma il mio cuore aveva ancora problemi perché le circostanze fuori erano sfavorevoli. Le persone continuavano a farmi del male. Dopo essere svenuta, fui condotta in un ospedale pediatrico e fui messa in una camera mortuaria. I miei genitori mi trovarono quasi per caso e capirono che non ero morta. Subii diciassette interventi. Volevo studiare medicina, ma il governo vietnamita mi teneva sotto controllo, voleva diventassi un simbolo della guerra per il loro Stato. Invece, io volevo solo essere lasciata in pace, studiare. Ero piena di cicatrici, lo sono tuttora. Mi dicevo: nessuno mi vorrà più. Invece oggi sono moglie, mamma, nonna. Non è un miracolo? Ecco, se sono riuscita a fare tutto questo quando il vento mi era contrario lo devo a questa forte convinzione di avere un amico vicino, un’idea forte dalla mia parte.

La guarigione fisica è stata lenta e faticosa, ma le ferite vere, quelle su cui nessun chirurgo può mettere mano, come le ha guarite?

È stato lento e faticoso anche quello. Dico sempre che il mio cuore era nero come un bicchiere di caffè, ma un po’ alla volta, un gocciolino alla volta, toglievo un po’ di odio, finché il bicchiere non è diventato vuoto e ho potuto riempirlo con cose nuove: luce, gioia, compassione. Con desiderio e determinazione imparai ad amare e a pregare per i miei nemici. E poi, un giorno, a Washington DC partecipai alla celebrazione annuale dei veterani di guerra sul National Mall. Feci un mio discorso. I trombettieri intonarono le note del Silenzio. Dissi: «Cari amici!». Li chiamai così: cari amici. «Non posso cambiare la Storia, ma desidero ricordarvi quale tragedia sia la guerra. Se incontrassi il pilota che ha sganciato la bomba gli direi: ‘Il passato non si cambia, ma ora, insieme, dobbiamo preparare un futuro di pace’». In mezzo alla folla c’era John Plummer, reduce del Vietnam. Mi si avvicinò e mi disse: «Ora sono pastore di una chiesa, ma sono stato il capitano che ha coordinato il bombardamento al napalm sulla Route 1 di Trang Bang, quel brutto giorno. Mi vuoi perdonare, Kim? Mi vuoi perdonare per quello che ho fatto?». Sentii quella forza che viene solo dalle cose grandi. Gli tesi la mano, lo fissai dritto negli occhi e gli dissi: «Va tutto bene, pastore Plummer. Io la perdono. Io la perdono». Quel giorno lo guarii e fui guarita.

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