Ma quale riservatezza, giovani spudorati senza rete

Le preoccupazioni per la privacy non sembrano riguardare gli adolescenti, più interessati a condividere informazioni online. Forse manca una pedagogia della socializzazione in rete
29 novembre 2007
Nicola Bruno
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Riservatezza? Anonimato? Tutela della sfera personale? Ma non è che stiamo parlando di qualcosa di già superato? E cioè, di proteggere un'identità e una privacy che in rete non esistono più? Non solo per la tendenza al controllo da parte dei colossi del business e delle autorità governative. In ballo ci sono anche spinte di natura tecnologica e culturale, nate dal basso e ormai radicate in molte pratiche online. Basta osservare come si relazionano al web i cosiddetti «nativi digitali». Ovvero la generazione che sta colonizzando la «parte abitata della rete» con un forte desiderio di community e, al tempo stesso, senza troppi scrupoli sulla conseguenze di questa esposizione pubblica. «Internet per me è solo un modo per far sapere a quanta più gente possibile chi sono realmente - spiega un ventiduenne - E' l'era dell'informazione. Sono abituato a dare e ricevere un sacco di informazioni». Fin troppo facile scomodare categorie vecchio stampo come esibizionismo e narcisismo. Molto più semplicemente, qui si tratta di fare i conti con alcuni fenomeni del tutto nuovi.
Il primo è sotto gli occhi di tutti e riguarda il progressivo slittamento dei confini tra sfera pubblica e privata. Sul tema esiste già una ricca letteratura: «Le nuove tecnologie sociali alterano l'architettura alla base delle interazioni e della distribuzione delle informazioni - sottolinea la ricercatrice statunitense Danah Boyd - I teenager abbracciano questo cambiamento, e spesso lo fanno con il candore impacciato di un elefante in un negozio cinese».
Giusto, quindi, ricordare che l'identità in rete sta diventando più fluida e stratificata, che ci troviamo di fronte a «forme di autorappresentazione orientate alla costruzione di relazioni dialogiche». Resta, comunque, il dubbio che qualcosa stia sfuggendo di mano. Secondo un recente studio inglese, il 60% dei ragazzi tra i 14 e i 21 anni non è consapevole del fatto che i dati pubblicati online potranno essere ricollegati a loro in maniera permanente. Come dire: dietro la spinta irresistibile alla condivisione spesso si nasconde anche molta incoscienza. Internet è un ambiente persistente (tutte le informazioni sono memorizzate e facilmente recuperabili) in cui si aggira un pubblico invisibile. Amici, sconosciuti, genitori, futuri datori di lavoro possono accedere con facilità a contenuti non indirizzati espressamente a loro. E, tra l'altro, in qualsiasi momento: basta una semplice interrogazione su un motore di ricerca. «Tutto ciò - sottolinea lo studioso Derrick De Kerckhove - porterà a dover rinegoziare di continuo le tracce della nostra identità presenti in rete. Quelle immesse da noi e quelle condivise da altri». E già, perché accanto alle informazioni pubblicate in prima persona, ci sono anche quelle caricate da terzi. A voler essere distopici, internet già contiene al suo interno i semi per la nascita di una «società del controllo» dal basso (oltre che dall'alto).
Più che meritorio, quindi, l'impegno di Stefano Rodotà per un Internet Bill of Rights, «strumento che non vuole limitare la libertà in rete ma, al contrario, mantenere le condizioni perché possa continuare a fiorire». Giusto insistere anche su una migliore diffusione delle tecnologie PET, oltre che sullo sviluppo di filtri più efficaci per gestire la complessità di relazioni online. Ammesso, appunto, che poi ci sia tutto questo bisogno di privacy. E se anche così non fosse, diventa più che mai centrale una riflessione sulla portata etica della socializzazione in rete. Che è poi una questione di «media education» di cui dovrebbero iniziare a farsi carico proprio gli adulti (genitori e scuola). Spiegando, ad esempio, qual è la differenza «tra fare uno scherzo a un compagno di classe; fare uno scherzo e filmarlo; fare uno scherzo, filmarlo e renderlo fruibile da chiunque» (Wu Ming).
Siamo in un momento di transizione e, al solito, si sprecano i battibecchi tra due retoriche opposte: una tecno-entusiasta, autoassolutoria («il problema non è internet, ma la società»), che esalta a priori delle magnifiche sorti del web 2.0; un'altra tecno-esclusa, con tendenze alla criminalizzazione e spesso spaventata a posteriori. Entrambi gli atteggiamenti rischiano di essere controproducenti per una generazione che sta facendo esperienze importanti in un sostanziale clima di laissez-faire e senza una percezione etica chiara.

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