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INTERVISTA

Il «non ritorno» della non violenza

Per Marco Revelli le dimissioni di Paolo Cacciari da deputato indicano in un colpo solo tutto l'abisso tra politica e movimenti: «Nessun partito può rappresentarli entrambi» I governi cadono per le guerre perse non per quelle non combattute
21 luglio 2006
Matteo Bartocci
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Marco Revelli, sociologo e storico esponente del movimento, è rimasto molto colpito dalle dimissioni da deputato di Paolo Cacciari e indica in quel gesto un segno limpido ma drammatico della crisi politica delle sinistre italiane. Crisi che passa anche e soprattutto nella fine del rapporto tra politica e movimenti. «Paolo - sostiene Revelli - ha fatto la cosa giusta nel modo giusto, ha messo in evidenza in modo drammatico tutta la distanza che separa oggi la dimensione della 'politica di stato', che è la politica che si fa in parlamento, dalle ragioni di un movimento mondiale per la pace. E' una distanza abissale, che non sta nella soggettività delle persone ma nell'ordine o nel disordine attuale delle cose».

Perché quelle dimissioni ti sembrano così dirompenti?
Lui l'ha spiegato benissimo in aula richiamandosi al dissidio tra l'etica della responsabilità e la coscienza. La prima ti dice che devi scegliere il male minore dati i rapporti di forza in parlamento e tra le grandi potenze, la seconda ti dice che hai il dovere di sottrarti.

Perché è necessario sottrarsi?
Perché tutti gli stati del mondo ragionano in termini di politiche militari. Continuano a considerare solo l'uso monopolistico della violenza contro un terrorismo che rompe quel monopolio. In un crescendo simmetrico di distruttività gli stati rispondono al terrorismo per rimpossessarsi della violenza e si apre il vaso di Pandora che è la guerra. Nel momento in cui una follia assoluta e distruttiva come la guerra dilaga nell'azione dei diversi soggetti politici all'opera, Paolo ha scelto di affermare in termini assoluti che l'azione militare deve essere bandita da ogni livello della sfera mondiale.

Ma se si è dimesso senza votare contro quella guerra non si è sottratto alle sue responsabilità?
Con quella scelta apparentemente moderata ma in realtà molto radicale ha messo in evidenza sia ciò che si dovrebbe fare sia ciò che non si può fare, perché non c'è spazio per un tipo di argomentazione non violenta nella politica statale. Tutte le scelte che si fanno sono scelte tragiche. Cacciari ha dichiarato la contraddizione e si è collocato su un versante solo del problema, consapevole che il prezzo da pagare è quello dell'inefficacia: ha scelto una posizione di impotenza. Ma chi sceglie la «potenza», invece, nello stesso tempo si colloca dentro un sistema che non permette di dire l'unica cosa che si dovrebbe dire e cioè che ogni azione militare è folle.

Dunque la politica nelle istituzioni e la politica nei movimenti sono del tutto inconciliabili?
L'equivoco nasce nel pensare che un partito politico che agisce sul terreno della politica statale come soggetto totale, che quindi deve fare i suoi calcoli di efficacia e di utilità, possa veicolare le ragioni di un movimento che appartiene a un altro spazio e a un altro tempo. Il primo ha tutti gli strumenti che servono ma non li usa, il secondo è del tutto consapevole dei rischi e delle minacce ma non ha strumenti. Nessun partito può saldare questa contraddizione e se dice di farlo esprime una falsa coscienza.

Però se lui si è candidato forse sperava che non sarebbe stato così.
Io ora sono in una inoperatività assoluta e completa. Posso pensare l'altrove ma non posso intervenire. D'altra parte chi ha scelto di intervenire si preclude la possibilità di «pensare». I vincoli sono oggettivi e vanno riconosciuti: le grandi potenze, i partiti, un passato che non trapassa, il terrorismo, i fondamentalismi, sono l'unica logica che muove il mondo della diplomazia e dei governi oggi. Se sei parte di quella logica ne sei vincolato.

Lo è anche Pietro Ingrao, quando dice che l'Afghanistan è secondario rispetto ai drammi del mondo e il governo non può cadere su questo?
Fa una scelta avendo valutato tutta la sua drammaticità. Fa una scelta come quella di Cacciari ma sul versante esattamente opposto, sceglie l'operatività per minimizzare il danno. Non credo che Ingrao pensi che sia un bene la missione in Afghanistan, pensa che quel voto sia il male minore, che è un prezzo che si può accettare di pagare in assenza di alternative migliori: è il ragionamento dell'etica della responsabilità. Quello che proprio non mi piace invece è il gioco delle tre carte.

E cioè?
Cioè non mi piace chi gioca alla borsa della politica statale con le ragioni ideali dei movimenti, magari per regolare i rapporti di forza all'interno dei partiti o del proprio schieramento, o per acquistare visibilità. L'uso strumentale della pace all'interno dei rapporti di forza politici insomma proprio non mi va giù.

Gino strada ha detto che brinda per qualsiasi governo che cade sulla guerra. Tu mi sembri più pessimista, addirittura esclude che un'eventualità simile possa accadere.
I governi cadono solo sulle guerre perdute e non sulle guerre non fatte o vinte. Dopole Falkland i macellai argentini caddero, dopolo sbarco in Sicilia Mussolini cadde, ma di governi che cadono perché i parlamenti non approvano la loro politica bellica se ne sono visti davvero pochi.

Allora i movimenti che devono fare? Le guerre si fanno lo stesso...
I movimenti sono davanti a un punto di non ritorno. Non possono più vivere di rendita e cioè nell'illusione di poter condizionare le politiche degli stati accumulando forza per il «no alla guerra» e chiedendo ai governi di mettere in atto questo imperativo. I governi non rispondono. Anche se sei la «seconda potenza mondiale» la più piccola delle altre potenze statali continuerà a fare la sua guerra. Allora o tagli anche quest'ultimo cordone ombelicale tra il sistema degli stati e il movimento globale per la pace, decidendo che il tuo mondo è davvero un altro mondo rispetto al loro, oppure finisci per essere la comparsa secondaria dei loro G8 o dei loro summit. Scegliere di essere un altro mondo però vuol dire anche dotarsi di mezzi per intervenire nel mondo che c'è. Mezzi che non possono che essere in alternativa a quelli degli stati, e quindi non violenti. E poi devi agire sul terreno: non stai a Roma per fare la pace a Kabul, o a Beirut, o a Gerusalemme, devi andare lì. Forse servirebbero brigate internazionali non violente, analoghe a quelle che si formarono in Spagna per la guerra civile. Si deve insomma uscire dalla propaganda ed entrare nella operatività. Sei in grado di sostituire le agonizzanti soggettività morali di oggi solo se sei in grado di praticare con efficacia i tuoi obiettivi mettendo in campo mezzi adeguati ai tuoi fini. Ci sono biblioteche intere di arte bellica ma anche di tecniche non violente e di vero «peace keeping».

Forse il compromesso, o la contraddizione, sono esemplificati dalla spilla della pace di Bertinotti alla parata del 2 giugno: vado lì come presidente della camera ma ci porto anche la mia identità.
Avrei preferito che il mio amico Bertinotti invece di applicare quella spilla si fosse impegnato a mettere in bilancio anche solo un 5% dell'equivalente della nostra spesa militare per la creazione di forze rapide di interposizione non violenta nelle situazioni di crisi. E magari che avesse impegnato su questo la Sinistra Europea. Lì, in quella dimensione, forse il punto di sutura tra i due mondi potrebbe ancora essere trovato.

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