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Spese militari, commercio di armi e campagne per il controllo degli armamenti

Un'anticipazione da "Fare pace: odio. Annuario geopolitico della pace 2007"
24 dicembre 2007
Giorgio Beretta

Spese militari

Avevano suscitato anche qualche rimostranza da parte dell’allora presidente della Banca Mondiale, James Wolfensohn. Alla fine del suo quasi decennale mandato nel 2005, Wolfensohn si era detto frustrato per non essere riuscito “a far capire ai leader mondiali e di diversi paesi che la vera sfida per la stabilità globale è la povertà”. “Non è che la questione del terrorismo non sia importante: ma nel mondo stiamo spendendo 1.000 miliardi di dollari all’anno in spese militari a fronte di circa 50 o 60 miliardi per lo sviluppo. Sono convinto che se spendessimo più soldi per dare speranza alla gente, per combattere la povertà ci sarebbero meno guerre e avremmo probabilmente un miglior uso delle nostre risorse”, aveva sostenuto Wolfensohn(1).

Al di là delle dichiarazioni, resta il fatto che (come documenta l’autorevole istituto svedese di ricerca SIPRI(2)) dal 2002 le spese militari hanno visto un’impennata, tanto da essere ormai tornate ai livelli del periodo della Guerra Fredda: l’incremento negli ultimi dieci anni supera il 37% e, solo nell’ultimo anno registrano un aumento medio mondiale da 173 a 184 dollari pro capite. I 1.158 miliardi di dollari del 2006 rappresentano infatti un sostanziale ritorno alle cifre del 1988, quando le spese militari mondiali avevano raggiunto i 1.193 miliardi di dollari (in valori costanti del 2005) e l’ultimo quinquennio, con valori sempre superiori al miliardo di dollari, mostra un complessivo allineamento alle cifre del periodo della Guerra Fredda.
Se al primo posto permangono gli Stati Uniti che, per le operazioni militari in Afghanistan ed Iraq hanno visto una crescita del budget militare fino a 528,7 miliardi di dollari (dati 2006 ai valori costanti del 2005) che che da soli ricoprono il 46% dell'intera spesa militare mondiale, a differenza degli anni della contrapposizione tra Est/Ovest, al secondo posto nel 2006 troviamo due Paesi europei: Gran Bretagna (59,2 miliardi di dollari) e Francia (53,1 miliardi), seguiti da Cina (49,5 miliardi, ma il dato potrebbe essere sottostimato), Giappone (43,7 miliardi) e Germania (37 miliardi). L'Italia, con 29,9 miliardi di dollari, nel 2006 è scesa all'ottavo posto nella graduatoria per spese militari scavalcata dalla Russia (34,7 miliardi), ma con una spesa militare pro capite di 514 dollari, il nostro Paese supera per il terzo anno consecutivo la Germania (447 dollari pro capite), mantenendo in questa graduatoria il settimo posto nel mondo. In generale, le spese militari segnano un incremento negli Stati Uniti, in Russia e in Cina, mentre sono complessivamente diminuite nell'Europa occidentale e nell'America centrale, riporta l’annuario Sipri 2007.

Spese militari italiane e nuovi armamenti

Trattando della spesa militare italiana va innanzitutto segnalata l’ormai annosa discrepanza tra le cifre fornite da un lato dagli istituti di ricerca internazionali e, dall’altro, dalle fonti governative e da taluni istituti di ricerca nazionali. Secondo i dati forniti dal Sipri e dalla Nato(3), la spesa militare italiana negli ultimi anni mantiene percentuali sempre superiori all’1,5% del Pil (Prodotto interno lordo), con punte che raggiungono in anni recenti il 2%. Nel 2006 la spesa militare dell’Italia è, secondo la Nato, del 1,5-1,7% del Pil a seconda se considerata in valori costanti o correnti. Secondo le fonti governative, ma anche secondo alcuni autorevoli istituti di ricerca italiani(4), il “budget della Difesa” dell’Italia dal 1999 sarebbe invece sostanzialmente costante su valori però molto inferiori, cioè attorno all’1% del Pil, e ne segnerebbe a partire dal 2005 un decremento allo 0,9%. Si tratterebbe di percentuali in forte contrasto non solo con quelle degli Stati Uniti, che dal 1999 riportano spese militari sempre al di sopra del 3% del Pil e che a partire dal 2003 manifestano una crescita costante tanto da superare nel 2007 il 3,6% del Pil, ma anche con quelle, tendenzialmente stabili di Gran Bretagna (2,4% del Pil), Francia (2,1%) e anche della Germania (1,1%). La disparità di percentuale del rapporto spese militari/Pil tra le fonti internazionali (Sipri e Nato) e le fonti nazionali non è di poco conto: si tratta infatti di una differenza di 1/3 sul valore percentuale totale (1,5-1,7% a fronte del 0,9-1%). Considerando poi che buona parte dell’informazione giornalistica riporta principalmente i dati di fonte governativa, forniti anche da diversi istituti di ricerca nazionali, si può comprendere la scarsa attenzione dell’opinione pubblica italiana alle questioni relative alla spesa militare e alla sua incidenza sul bilancio complessivo dello Stato.

Al riguardo, nella legge finanziaria del 2007, tra bilancio della Difesa e finanziamento pubblico al comparto militare-industriale, lo stanziamento complessivo è stato di oltre 21 miliardi di euro: un aumento del 12% rispetto alla precedente finanziaria del governo Berlusconi. In particolare ha sollevato le critiche dei movimenti pacifisti(5) la partecipazione alla fase di ricerca e sviluppo da parte del governo italiano al progetto del caccia americano F35-JFS (Joint Strike Fighter-Lightning II) per la quale il governo nel febbraio 2007 ha firmato un “protocollo di intesa” con gli Stati Uniti che prevede una partecipazione italiana di “Livello II” con un esborso di un miliardo di dollari, pari al 4% del costo del progetto (25 miliardi di dollari) per la sola fase di System Design and Development (Sdd) prevista nell'arco temporale che va dal 2002 al 2012.

La spesa complessiva per l'acquisto dei circa 130 caccia che l’Italia ha in programma a partire dal 2015 dovrebbe invece aggirarsi tra gli 11 e i 14 miliardi di dollari, a seconda delle stime. Spese che si sommeranno a quelle già in corso per un altro caccia, l'Eurofighter Typhoon, di cui l’Italia ha in programma di acquistare complessivamente 121 velivoli per una spesa ormai stimata tra gli 8,5 e i 9,7 miliardi di euro. Senza dimenticare la portaerei Cavour (quasi 1 miliardo di euro, sistema d'arma esclusi) e le dieci nuove fregate Fremm (3,5 miliardi di euro), per citare soli i sistemi principali.

Il commercio internazionale di armi(6)

L’incremento delle spese militari sostenuto dalla “lotta al terrorismo internazionale” e, più in generale, dal clima di insicurezza che si è diffuso a livello planetario dopo gli eventi dell’11 settembre 2001, sta fungendo da traino anche alla ripresa del commercio internazionale di armamenti ad uso convenzionale che, come riporta sempre il Sipri, mostra ormai un’effettiva “inversione di tendenza” non solo rispetto al quinquennio antecedente, ma più in generale a tutto il periodo a partire dal 1990. I dati sui trasferimenti internazionali di armamenti forniti dall’Arms Transfers Database del Sipri(7) mostra infatti a partire dal 2003 un “trend in costante ascesa” che è “marcatamente differente dal trend del periodo dal 1986 al 2002 nel quale si è verificato un andamento in quasi costante discesa” (Sipri 2007, pp. 387). Con cifre che passano dai 16,8 miliardi di dollari del 2002, quando il commercio internazionale di armi convenzionali raggiunse il minimo storico dal 1960, agli oltre 26,7 miliardi di dollari del 2006 con incremento di oltre il 58% negli ultimi cinque anni.

In questo scenario internazionale, le cento principali aziende mondiali del settore (escluse quelle cinesi) hanno registrato nel 2005 vendite di sistemi militari per oltre 290 miliardi di dollari in valori correnti che rappresentano un incremento del 18% rispetto alle vendite del 2002 (Sipri 2007, cap. 9). Un giro d'affari imponente che equivale al prodotto interno lordo dei 61 Paesi più poveri del mondo. Buona parte delle vendite è destinata agli stessi Paesi di produzione, ma l’importanza economica di queste aziende è ormai comparabile a quella di altre compagnie multinazionali e, parimenti, registrano un fatturato di ordini di grandezza tali da classificarle tra le principali entità economiche non solo nell’ambito nazionale, ma anche a livello globale. Tra queste va annoverata Finmeccanica le cui vendite nel 2005 per oltre 9,8 miliardi di dollari (un incremento del 37,5% rispetto al 2004) portano l'azienda italiana controllata dal Ministero dell'Economia e delle Finanze a salire al settimo posto nella graduatoria delle principali ditte mondiali produttrici di armi (era decima nel 2003). Il Sipri segnala inoltre che nel 2005 quasi il 70% delle vendite di Finmeccanica è rappresentato da armamenti.

Passando ora a considerare i principali Paesi fornitori di armamenti convenzionali, tre sono gli elementi che caratterizzano il periodo 2002-2006 rispetto al quinquennio precedente: la ripresa delle esportazioni da parte degli Stati Uniti; il permanere della Russia tra i maggiori fornitori mondiali e soprattutto il significativo incremento delle esportazioni di armi dei Paesi dell’Unione europea che, nel suo insieme, si attesta ormai come protagonista di primo piano nel commercio internazionale di “grandi sistemi d’arma”.

Dopo la netta flessione delle esportazioni registrata nel triennio 2001-2003 e particolarmente nel 2002, anno in cui con poco più di 5 miliardi di dollari le vendite di armi americane hanno toccato il minimo storico nell’ultimo trentennio, gli Stati Uniti sono tornati nel recente biennio ad essere il principale esportatore mondiale di armi convenzionali. Nel 2006 le vendite di armamenti di Washington superano i 7,9 miliardi di dollari e nel quinquennio 2002-2006, con più di 32 miliardi di dollari, giungono a ricoprire il 30,3% dell’intero commercio internazionale di armamenti. La Russia, invece, registra già dal 2000 valori in progressiva crescita fino agli oltre 6,6 miliardi di dollari del 2006 che le attestano, per il quinquennio 2002-2006, una percentuale solo di poco inferiore a quella degli Stati Uniti: il 28,7%.

Particolarmente significative nell’ultimo quinquennio sono invece le esportazioni di armamenti dei Paesi dell’Unione europea. Infatti già a partire dal 2004, con 6 miliardi di dollari, le esportazioni militari dei Paesi dell’Unione si posizionano su livelli comparabili a quelli di Washington e Mosca.

È proprio nell’ultimo biennio che i Paesi Ue salgono al primo posto nel mondo con 7,3 miliardi di dollari nel 2005 (il 32,7%) e con ben 10,5 miliardi di dollari nel 2006 (il 39,2%) ricoprendo assieme il 31% di tutto il commercio di “grandi sistemi d'arma” nel quinquennio 2002-2006. Pur notando che il 32% è rappresentato da trasferimenti tra vari Paesi membri e che all’incirca il 68% di tutte le esportazioni militari dei Paesi Ue è diretta a nazioni extracomunitarie, nel suo insieme l’Unione europea rappresenta oggi “il terzo maggior esportatore mondiale di armi convenzionali” (Sipri 2007, pag. 396).

A segnare il recente protagonismo nel settore dell’Unione europea è, innanzitutto, l’incremento di esportazioni di Francia e Germania. Con 6,3 miliardi negli ultimi tre anni le esportazioni di Parigi sono mediamente quasi raddoppiate rispetto al triennio precedente e nel solo 2004 hanno raggiunto i 2,7 miliardi di dollari. Ma sono soprattutto le esportazioni militari di Berlino che mostrano una forte crescita, di fatto quasi un raddoppio, passando da una media di poco più di 1,2 miliardi di dollari del triennio 2001-2003 agli oltre 2,1 miliardi di media nel triennio 2004-2006 e raggiungendo nel 2006 i 3,9 miliardi di dollari. In tendenziale diminuzione, invece, le esportazioni del Regno Unito che passano dagli oltre 1,3 miliardi di dollari del 2000 ai 680 milioni del 2003 anche se, con oltre 1 miliardo di dollari di media annuale, dal 2004 mostrano segni di ripresa. Non va dimenticato, nel contesto europeo, il forte incremento delle esportazioni dell’Olanda che passano dai 370 milioni di dollari di media dell’intero decennio 1995-2004 agli 877 milioni del 2005 fino ai quasi 1,5 miliardi di dollari del 2006. In forte crescita anche le esportazioni di “grandi sistemi d'arma” dell’Italia che, con valori che sfiorano i 2,6 miliardi di dollari, nel quinquennio 2002-2006 vedono il nostro Paese salire al settimo posto nell’esportazione mondiale di armamenti. Tra i principali fornitori mondiali di armi vanno, infine, ricordati Svezia, Cina, Israele, Ucraina e Canada.

Tra i principali Paesi importatori di sistemi militari dell’ultimo quinquennio, la Cina con oltre 14,6 miliardi di dollari di importazioni si conferma come il principale acquirente mondiale di “grandi sistemi d’arma”. Il Governo di Wen Jabao acquista soprattutto dalla Russia, che col 95% detiene quasi il monopolio del mercato cinese, ma nonostante l’embargo di armi dell’Unione europea, negli ultimi anni il volume dei contratti di Pechino con diversi Paesi europei si è comunque accresciuto notevolmente: i Rapporti sull’applicazione del Codice di condotta dell’Ue(8) relativi agli anni 2002-2005 evidenziano licenze per l’esportazione di sistemi militari a Pechino per un valore complessivo di oltre 1,2 miliardi di euro rilasciate principalmente da Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia(9) che costituiscono componenti essenziali per l’ammodernamento degli armamenti cinesi come sottomarini, carri armati e aerei da combattimento” (Sipri 2005, pag. 440).
In forte aumento risultano anche le acquisizioni di sistemi militari dell’India: se per tutti gli anni Novanta New Delhi aveva mantenuto una media annuale di importazioni di armamenti di circa 1 miliardo di dollari, con più di 10 miliardi di ordinativi, nell’ultimo quinquennio ha più che raddoppiato le proprie commissioni militari. Anche la Corea del Sud si sta mostrando sempre più attiva: dopo aver esibito nel biennio 2002-2003 un dimezzamento, rispetto al miliardo di dollari di media degli anni Novanta, i quasi 1,3 miliardi nel 2006 di importazioni presentano segnali di una ripresa che sembra preannunciare ulteriori sviluppi in considerazione anche del desiderio di Seul di contrastare la minaccia rappresentata dai test nucleari attuati nell’ottobre 2006 dalla Corea del Nord.

Sostanzialmente stabili, in raffronto agli anni Novanta, le commesse militari di Israele anche se negli anni più recenti del quinquennio 2002-2006 mostrano segnali di incremento in seguito alla ripresa delle importazioni dagli Stati Uniti, al conflitto con Hezbollah e all’acuirsi delle tensioni con l’Iran e la Siria (Sipri 2007, pag. 396ss).

In decisa crescita le importazioni degli Emirati Arabi Uniti: se per tutti gli anni Novanta non avevano superato una media annuale di 500 milioni, a partire dal 2004 le commesse di Dubai presentano, con oltre 2 miliardi di ordinativi annuali, una vera impennata. Gli Emirati Arabi Uniti sono con l’Arabia Saudita tra i Paesi mediorientali che hanno messo in atto programmi di acquisizione di nuovi armamenti: gli 80 caccia F-16E per un valore complessivo di oltre 6 miliardi di dollari ordinati agli Stati Uniti da Dubai e i 72 caccia Eurofighter Typhoon del contratto, tra i 15 e i 19 miliardi di dollari, che Riyad sta per firmare con Londra, sono un esempio di questi programmi e degli sviluppi futuri.

In forte aumento, infine, anche le importazioni della Grecia. Le spese per armamenti di Atene, dopo una stasi nella seconda metà degli anni 90, sono tornate a salire nel nuovo millennio e, dopo aver segnato una media annua di circa 600 milioni nei primi tre anni, nel 2003 sono balzate ad oltre 2 miliardi di dollari e continuano a mantenere una media annuale di 1,5 miliardi di dollari.

Violazioni degli embargo di armi e traffici illeciti

Preoccupanti sono soprattutto le violazioni degli embarghi di armi. Al luglio 2007 erano in vigore 24 embarghi internazionali, di cui dieci vincolanti delle Nazioni unite e 14 decisi da aggregazioni di Stati di cui 13 imposti dall’Unione europea mentre uno è stato decretato dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) (10).

Un rapporto dell’Onu del novembre 2006 denunciava Eritrea, Iran, Libia, Arabia Saudita e Siria di violazione dell’embargo nei confronti della Somalia fornendo armi – tra cui missili antiaerei spalleggiabili (Manpads), all’Unione delle Corti Islamiche (Icu), mentre il Governo federale di transizione somalo stava ricevendo armamenti da Etiopia, Uganda e Yemen, nonostante l’embargo. Successivi rapporti segnalavano ulteriori ampie violazioni dell’embargo e accusano anche gli Stati Uniti di fornire supporto militare alla cosiddetta “Alleanza per il ristabilimento della pace e contro il terrorismo” (Arpct), una variegata coalizione di “signori della guerra” formata nel febbraio 2006 per contrastare le milizie dell’Unione delle corti islamiche (Sipri 2007, pag. 412-413). Inutile dire che tutte le parti interessate hanno negato il proprio coinvolgimento nelle violazioni dell’embargo di armi.

Anche nei confronti dell’embargo di armi in vigore verso i gruppi armati e le milizie operanti nella Repubblica Democratica del Congo sono state riportate denunce di diverse violazioni: nel gennaio del 2005 un rapporto di gruppo di esperti del Consiglio di sicurezza dell’Onu ha accusato l’Uganda di aver venduto nel 2004 armi a gruppi armati in cambio di minerali preziosi. Violazioni dell’embargo sono state riportare anche da associazioni indipendenti come Amnesty International che nel luglio del 2005 e nell’ottobre del 2006 in due distinti rapporti(11) ha ricostruito il percorso delle armi e delle munizioni dirette ai governi di RDCongo , Rwanda e Uganda e la loro successiva distribuzione a milizie e gruppi armati operanti nella RDCongo e il ritrovamento di proiettili prodotti in Cina, Grecia, Stati Uniti e Russia nelle mani dei gruppi ribelli che agiscono nella regione orientale congolese.

E, nonostante il rafforzamento dell’embargo di armi nella regione sudanese del Darfur (che nel marzo 2005 il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha esteso oltre alle milizie Janjaweed a tutte le parti firmatarie dell’Accordo di N'djamena dell’aprile 2004 tra cui l’esercito sudanese, il Movimento di Liberazione del Sudan ed il Jem, Movimento giustizia e uguaglianza) Amnesty International(12) e Human Right Watch(13) ne hanno ripetutamente documentato la violazione da parte di Russia e Cina attraverso l’invio al regime di Khartoum di armamenti tra cui elicotteri e aerei da combattimento. Anche allo Zimbabwe, sotto embargo di armi dal 2002 da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, sono stati venduti nel 2005 sei aerei K-8 da parte della Cina (Sipri 2006, pag. 461).

Nonostante gli Accordi di Taif del 1989 e successive risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu avessero vietato l’invio di armi a Hezbollah, le forniture di armi alle diverse milizie non governative presenti in Libano sono continuate soprattutto ad opera di Iran e Siria (Sipri 2007, pp. 409-411).

Nel marzo del 2007 la risoluzione 1749 del Consiglio di sicurezza dell’Onu ha posto fine all’embargo di armi, in vigore dal 1995, anche verso “forze o persone non al servizio del Governo del Rwanda”, ma ha ribadito il dovere “per gli Stati della regione di assicurarsi che armi e relativi materiali a loro destinati non vengano deviati o impiegati da gruppi illegali armati”.

Per quanto concerne l’Italia, va menzionata la notizia del ritrovamento, nel maggio del 2005, da parte dell’intelligence americana di pistole Beretta 92S nelle mani degli “insorti” in Iraq(14). Nonostante la risoluzione 1546 del giugno 2004 del Consiglio di sicurezza dell’Onu abbia mantenuto la proibizione “alla vendita e alla fornitura di armi e relativi materiali a tutte le forze presenti in Iraq ad esclusione dell’esercito governativo e delle forze della coalizione multilaterale” chiedendo a tutti gli Stati membri dell’Onu una “stretta osservanza” di tale divieto così da “prevenire la fornitura di armi ai terroristi”, i militari statunitensi in Iraq hanno scoperto a Baghdad, in uno dei palazzi del deposto raìs, “quattromila calibro nove italiane ancora imballate”. Sulla vicenda la magistratura di Brescia ha aperto un’inchiesta e nell’aprile del 2005 ha disposto il sequestro di più di 15mila Beretta 92S ancora nei magazzini della ditta bresciana ma già vendute e pagate dall'inglese Super Vision International Ltd, la ditta alla quale, secondo la ricostruzione del settimanale L’Espresso(15), la Beretta avrebbe affidato la “triangolazione”.

Le esportazioni italiane di armi

Come già accennato, le esportazioni di “grandi sistemi d'arma” dell’Italia sono in forte aumento: dopo aver segnato nel quinquennio 2000-2004 una media attorno ai 272 milioni di dollari, l’export italiano di armamenti nel 2005 sale a 787 milioni di dollari e nel 2006 tocca gli 860 milioni con una media di oltre 518 milioni di dollari nel quinquennio 2002-2006 che porta l’Italia ad essere oggi il settimo esportatore mondiale di armamenti. I dati del Sipri si riferiscono tuttavia principalmente solo ai “grandi sistemi d'arma” (velivoli, carri armati e artiglieria, sistemi guida e radar, missili, navi) mentre la più autorevole fonte sulle esportazioni e importazioni di armi italiane resta la Relazione annuale che la Presidenza del Consiglio dei Ministri consegna al Parlamento italiano ai sensi dell’art. 5 della legge n. 185/90.(16)

Secondo le Relazioni governative, le autorizzazioni all'esportazione rilasciate dal Governo nel 2006 superano nel loro insieme, cioè sommando quelle del Ministero degli Esteri a quelle del Ministero della Difesa, i 2.324 milioni di euro, con un incremento del 58,7% rispetto all'anno precedente quando si attestavano attorno ai 1.465 milioni di euro, in valori calcolati secondo il coefficiente di rivalutazione monetaria dell’Istat(17). Dall’anno 2000, il trend delle autorizzazioni alle esportazioni risulta tendenzialmente in crescita e nell'ultimo quinquennio il comparto industriale-militare italiano ha più che raddoppiato il proprio portafoglio d'ordini passando dai 1.140 milioni di euro di commesse del 2002 agli oltre 2.324 milioni di euro del 2006. Si tratta della cifra record di tutto il quindicennio dall’entrata in vigore della legge 185/90.

Le consegne effettive di armi italiane risultano invece più fluttuanti. Nell’ultimo quindicennio, dopo aver toccato nel 1998 il picco di 1.187 milioni di euro, vedono una progressiva diminuzione fino al 2004 quando registrano il minimo storico di 498 milioni di euro: ma l’ultimo biennio presenta una ripresa e, per la prima volta dal 1998, le consegne tornano a crescere superando nel 2006 i 970 milioni di euro.

Per quanto riguarda le zone di destinazione è innanzitutto utile assumere la ripartizione, adottata dalla stessa Relazione governativa, tra Paesi dell’Unione europea e della Nato(18) da un lato e, dall’altro, i Paesi non appartenenti alla Nato e all’Unione europea. Per quanto riguarda le consegne di sistemi d’arma, va notato che solo l’ultimo triennio 2004-2006 mostra un’inversione di tendenza rispetto al sette anni precedenti: mentre, infatti, nel periodo 1997-2003 si era verificata una sostanziale parità tra esportazioni dirette ai Paesi appartenenti all’insieme Nato-Unione europea (2.839 milioni di euro) e Paesi fuori dall’area Nato-Ue (2.810 milioni di euro), nell’ultimo triennio la forbice di esportazioni tra le due realtà è andata divaricandosi tornando ai livelli dei primi anni 90 quando le consegne di armi italiane riguardavano principalmente l’area Nato-Ue. Nell’insieme, però, il periodo 1992-2006 vede esportazioni di armi italiane solo per il 56% dirette ai partner delle principali alleanze economico-politico e militari italiane (Unione europea e Nato) mentre più del 44% delle esportazioni interessa Paesi al di fuori di queste alleanze.

Le tendenze analizzate nelle autorizzazioni e consegne di armi verso i Paesi non appartenenti all’Unione europea e alla Nato si riscontrano anche prendendo in esame i Paesi del Sud del mondo che (rispettivamente con quasi 3,3 miliardi di euro e poco meno di 1,5 miliardi di euro) nel perido 2002-2006 si attestano complessivamente su percentuali superiori al 40% del totale. Resta il fatto, che anche a fronte di una recente inversione di tendenza rispetto al periodo precedente, negli ultimi cinque anni più del 40% delle esportazioni di armi italiane è diretta a Paesi fuori dall’Unione europea e della Nato e, nello specifico, a Paesi del Sud del mondo.

Inoltre, nonostante il permanere di una buona legge come la 185/90 che regolamenta l’esportazione di armi italiane(19), sono proseguite anche nell’ultimo quinquennio le forniture di armamenti anche a Paesi in conflitto come l'Eritrea ma anche a India e Pakistan, che anzi risultano tra i principali acquirenti di armi italiane, a Paesi dove si compiono gravi e reiterate violazioni dei diritti umani e civili come Cina, Algeria, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, e a Paesi poveri e indebitati che spendono ingenti risorse nel settore militare come lo stesso Pakistan, il Cile e il Perú.

Il perdurare per diversi anni dopo l’entrata in vigore della legge di rilevanti percentuali di autorizzazioni e consegne di armamenti verso Paesi esterni alle principali alleanze politico-militari dell’Italia e, in particolare ai Paesi del Sud del mondo, crediamo imponga una decisa riflessione sull’osservanza da parte dei diversi governi della legge 185/90 che regolamenta l’esportazione di armi italiane. In questo contesto vanno segnalate due novità. La prima è l’avvio dal 2005 di un confronto annuale in sede parlamentare sull’esportazione italiana di armi: confronto al quale sono stati invitati, per un’audizione alla Commissione Esteri e Difesa della Camera e alla Commissione Difesa del Senato anche i rappresentanti della Rete Italiana Disarmo che hanno svolto rilievi in merito sia alla trasparenza delle informazioni fornite dalla Relazione annuale sull’esportazione di armi italiane sia sull’osservanza dei divieti imposti dalla legge 185/90(20). La seconda è l’impegno assunto dalla Presidenza del Consiglio del governo Prodi per “l’avvio di incontri periodici con i rappresentanti delle organizzazioni non governative, interessate al controllo dei trasferimenti dei materiali d’armamento”: l’iniziativa ha la finalità di “favorire una più puntuale e trasparente informazione in merito, tra l’altro, alle attività svolte dall’Amministrazione nella gestione delle procedure connesse con la legge 185/90”(21).

Il Sottosegretario On. Enrico Letta ha già cominciato a mettere in atto questa disposizione convocando i rappresentanti del suo ufficio e delle amministrazioni competenti (Consigliere Militare, Ministeri della Difesa, Affari esteri e dell’Economia e Finanze) e gli esponenti della Rete Italiana Disarmo a momenti di confronto sui temi della trasparenza e del controllo dell’esportazione di armamenti e impegnandosi a convocare gli addetti degli Uffici competenti per l’apertura di tavoli di confronto con le associazioni della Rete Disarmo anche su temi che riguardano la normativa sull’esportazione di “armi di piccolo calibro” non ad uso militare, gli intermediari di armi e, più in generale, circa le attività in atto nei diversi fori internazionali relativamente al controllo e monitoraggio delle esportazioni di materiale militare.

Continua intanto l’attività della Campagna di pressione alle “banche armate”(22) in merito ai servizi offerti da parte degli istituti di credito in materia di finanziamento e appoggio alla produzione e al commercio di armi. In seguito alle iniziative della campagna, promossa nel 2000 dalle riviste Missione Oggi, Mosaico di pace e Nigrizia , già dal 2001 numerosi istituiti di credito hanno iniziato a mettere in atto politiche più rigorose e restrittive in materia e in taluni casi a sospendere definitivamente questi servizi(23).

Tra queste va ricordata la dichiarazione dell’Amministratore delegato di Unicredit, Alessandro Profumo, di aver emesso “ordini di servizio che disponevano dal primo gennaio 2001 di non assumere più nuovi contratti di questo tipo” che ha già portato ad una chiara riduzione delle operazioni di appoggio all’esportazione di armi italiane. Similmente, la decisione nel marzo del 2004 della direzione di Banca Intesa di “sospendere la partecipazione a operazioni finanziarie che riguardano l'esportazione, l'importazione e transito di armi e di sistemi di arma che rientrino nei casi previsti dalla legge 185/90” ha segnato un drastico ridimensionamento delle operazioni dell’istituto che sono passate dai quasi 185 milioni di euro del 2000 ai poco più di 160mila euro del 2005.

Anche la dichiarazione nel gennaio 2006 del Direttore generale di Banca di Roma(24), Carmine Lamanda, di aver disposto al gruppo bancario diverse limitazioni in rapporto ai Paesi destinatari e ai sistemi d’arma esportati, ha visto passare il gruppo Capitalia, di cui Banca di Roma è la capofila, dagli oltre 396 milioni di euro di operazioni autorizzate del 2004 ai poco più di 38 milioni di euro del 2006. Lo stesso emergere, con oltre 1.150 miliardi di euro, di San Paolo Imi come principale gruppo per operazioni assunte nel periodo 2002-2006 è strettamente dipendente dalla policy definita dal gruppo torinese il quale, seppur limitando le proprie operazioni ai Paesi appartenenti alla Nato e all’Unione europea, ha visto nel corso degli ultimi cinque anni più che quintuplicare il valore delle proprie autorizzazioni in relazione alle commesse provenienti da questi Paesi.

Ma va evidenziato, al riguardo, che la recente fusione del gruppo San Paolo Imi con Banca Intesa ha visto nel giro di pochi mesi l’esplicitazione da parte della Direzione generale del nuovo gruppo di una differente policy in materia di servizi collegati al commercio di armi: il Gruppo Intesa-SanPaolo a partire dal luglio 2007 ha deciso infatti di sospendere definitivamente “la partecipazione a operazioni finanziarie che riguardano il commercio e la produzione di armi e di sistemi d’arma pur consentite dalla legge 185/90”.(25)

L’autolimitazione da parte dei principali gruppi bancari italiani delle operazioni connesse al commercio di armamenti ha portato l’industria del settore a rivolgersi ad altri istituti di credito sia italiani che esteri presenti in Italia. Per quanto riguarda il ruolo dei gruppi bancari esteri, il quinquennio 2002-2006 mostra due fenomeni opposti: se da un lato, infatti, alcuni istituti di credito esteri presentano, anche a seguito di un loro maggior protagonismo nella scena finanziaria italiana, quote di operazioni di una certa consistenza, dall’altro diversi istituti bancari esteri da tempo attivi nel settore appaiono limitare, quando non sospendere, queste operazioni. Il primo è il caso, ad esempio, del gruppo francese BNP Paribas che, anche a seguito di una maggior attività in Italia con l’acquisizione nel 2006 della Banca Nazionale del Lavoro, assume proprio nel biennio 2005-2006 una quota di operazioni pari ad oltre 336 milioni di euro. Il secondo caso riguarda invece l’istituto di credito olandese ABN Amro che nell’incorporare nell’aprile 2006 la Banca Antonveneta sembra portare anche la banca italiana, che nel triennio 2002-2004 aveva assunto operazioni per un valore di oltre 141 milioni di euro, a sospendere operazioni collegate al commercio di armi.

In definitiva, se è vero che gli istituti di credito esteri stanno assumendo quote sempre più rilevanti di operazioni relative all’esportazione di sistemi militari italiani(26), si tratta ancora di percentuali di second’ordine. Non appare pertanto giustificato l’allarmismo delle affermazioni della Presidenza del Consiglio del governo Berlusconi che nella Relazione consegnata al Parlamento nel marzo 2005 segnalava “notevoli difficoltà operative” per l’industria del settore militare italiano e addirittura ravvisava, come conseguenza, quella di “rendere più gravoso e a volte impossibile il controllo finanziario delle operazioni” da parte del ministero competente. La scena è comunque in continua evoluzione sul fronte nazionale per le recenti fusioni dei principali gruppi bancari italiani (Intesa-SanPaoloImi da un lato e Unicredit-Capitalia, dall’altro) e per l’accorpamento di diversi istituti di credito minori in nuovi gruppi come ad esempio i gruppi UBI Banca e Banco Popolare. Ma anche su quello europeo e internazionale per le annunciate acquisizioni e fusioni di alcune banche europee: evoluzioni che non mancheranno di avere ripercussioni anche per quanto riguarda i rapporti tra istituti di credito e industria militare italiana e, conseguentemente, sulla fornitura di servizi al commercio di armi italiane.

Le associazioni italiane che da anni sono attive nel controllo del commercio di armamenti appaiono comunque attente agli sviluppi in atto sia nel mondo finanziario sia, sul fronte commerciale e politico, circa le iniziative della Commissione europea(27). Per meglio rispondere ai cambiamenti in corso si sono coalizzate in Italia dando vita nel 2003 alla Rete Italiana Disarmo(28), un network di oltre 30 associazioni, e all’estero intessendo preziosi rapporti non solo con i principali centri di ricerca internazionali, ma anche con le diverse campagne attive nel controllo del commercio di armamenti e delle attività bancarie del settore(29).
E’ questa, ci pare, la principale e positiva novità degli ultimi cinque anni che, visti i risultati fin qui già raggiunti, offre piccoli ma significativi segni di speranza anche nella direzione del raggiungimento di un Trattato internazionale sul commercio di armi (Arms Trade Treaty, ATT) da parte delle Nazioni Unite. Il 6 dicembre 2006, infatti, l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha approvato con 153 voti a favore, 24 astensioni e l’opposizione degli gli Stati Uniti(30), la risoluzione 61/89, che chiede al Segretario generale di verificare il parere dei governi su “fattibilità, ambito e criteri” per pervenire ad un Trattato internazionale sul commercio delle armi, come “strumento legalmente vincolante che definisca regole internazionali comuni sull’importazione, l’esportazione e il trasferimento di armamenti convenzionali”(31).

La proposta del Trattato internazionale ha ricevuto un decisivo impulso specialmente dalla campagna “Control Arms”(32) promossa dall’ottobre del 2003 da Amnesty International, Iansa (Rete internazionale d’azione sulle armi leggere) e Oxfam: le tre associazioni sono state in grado non solo di far pressione sui governi di numerosi Paesi, ma soprattutto di far conoscere l’iniziativa a livello internazionale e di mobilitare l’attenzione della società civile raccogliendo in 170 Paesi del mondo oltre un milione di firme e volti con una “fotopetizione” a sostegno del Trattato. La strada del Trattato sul commercio di armi non sarà comunque facile vista l’opposizione del principale produttore e fornitore mondiale di armi: gli Stati Uniti. Ma, come notano gli stessi ricercatori del Sipri, essa “si presenta come la più significativa e globale iniziativa per il controllo dei trasferimenti di armi convenzionali dalla fine della Guerra Fredda”.

Note: (1) Il presidente della Banca Mondiale, James Wolfensohn, ha svolto queste considerazioni in diverse occasioni. Quelle qui riportate sono tratte da un’intervista da lui rilasciata alla Australian Broadcasting Corporation alla vigilia della fine del suo mandato, il 30 maggio 2005. La trascrizione dell’intervista è riportata al sito: http://www.abc.net.au/7.30/content/2005/s1380527.htm
(2) Per quanto riguarda i dati sulle spese militari e sul commercio internazionale di armamenti faccio ampio riferimento alle elaborazioni del Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) così come presentati negli ultimi Yearbook e sul sito dell’istituto svedese di ricerca: www.sipri.org.
(3) Si vedano le tabelle fornite dal Sipri nella sezione “Military Expenditure Database”: http://www.sipri.org/contents/milap/milex/mex_database1.html e quelle fornite dalla NATO nella sezione : www.nato.int/issues/defence_expenditures/index.html
(4) Si veda, ad esempio, lo studio curato da Giovanni Gasparini su “Economia e Industria della Difesa” pubblicato sul sito dell’Istituto di Affari Internazionali (IAI) accessibile dal sito dell’IAI: www.iai.it/sections/ricerca/difesa_sicurezza/osservatorio/Slide%20Osservatorio%202007.pdf
(5) Si veda, ad esempio, il documento del Coordinamento contro gli F35: www.nof35.org
(6) I paragrafi seguenti sono una rielaborazione di due miei più ampi studi – ai quale rimando per approfondimenti – sul commercio italiano e internazionale di armi dal titolo: “Le esportazioni italiane di armi” e “Il commercio internazionale di armamenti” di prossima pubblicazione nel volume a cura di C. Bonaiuti e A. Lodovisi: L'industria militare e la difesa europea: rischi e prospettive, Jaca Book, Milano.
(7) I dati sui trasferimenti internazionali di armi forniti in questa sezione sono ricavati dal Sipri Arms Transfers Database: http://armstrade.sipri.org/
(8) Il testo completo dei vari Rapporti sull’applicazione del Codice di Condotta dell’Ue sull’esportazione di armi è facilmente accessibile dal sito: http://www.sipri.org/contents/armstrad/atlinks_gov.html
(9) Da segnalare, in proposito, l’autorizzazione nel 2003 del governo italiano per la fornitura alla Cina di radar avionici Grifo S-
(10) Per questo capitolo ho ampiamente fatto riferimento a Sipri Yearbook 2006, pp. 468-476, Sipri Yearbook 2007, pp. 408-417 e http://www.sipri.org/contents/armstrad/embargoes.html e relativi link.
(11) I due rapporti di Amnesty International sono consultabili ai seguenti siti: http://web.amnesty.org/library/index/engafr620062005 e http://web.amnesty.org/library/index/engpol300502006
Per una sintesi in italiano si veda: www.amnesty.it/pressroom/comunicati/CS83-2005 e http://www.amnesty.it/pressroom/comunicati/CS114-2006.html
(12) Amnesty International ha diffuso due rapporti sulle violazioni da parte di Russia e Cina dell’embargo di armi che riguarda il Sudan: il primo nel maggio 2007 http://web.amnesty.org/library/index/engafr540192007 e il secondo nell’agosto 2007 http://web.amnesty.org/library/Index/ENGAFR540452007 al riguardo si veda anche: http://web.amnesty.org/pages/sdn-240807-news-eng
(13) Si veda, tra l’altro, la lettera indirizzata da Human Rights Watch al presidente cinese Hu Jintao nel gennaio 2007 nella quale l’associazione ribadisce “la presenza e l’impiego” da parte di diverse forze in conflitto in Darfur – tra cui l’esercito di Khartoum – di “armamenti provenienti dalla Cina”: http://hrw.org/english/docs/2007/01/29/sudan15189.htm
(14) La notizia è apparsa per la prima volta in Italia in un articolo di Nunzia Vallini sul “Corriere della Sera” del 25 maggio 2005 dal titolo “Iraq, pistole italiane alla guerriglia”. L’articolo è pubblicato anche al sito: http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2005/05_Maggio/25/beretta.shtml
(15) Circa l’inchiesta della magistratura sulle pistole Beretta in Iraq si veda la documentata indagine dei giornalisti Peter Gomez e Marco Lillo: “Beretta connection” in L’Espresso del 24 febbraio 2006 accessibile al sito: http://espresso.repubblica.it/dettaglio-archivio/1311769
(16) Si tratta del documento: Presidenza del Consiglio dei Ministri, Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell'esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento, nonché dell’esportazione e del transito dei prodotti ad alta tecnologia, Camera dei Deputati-Senato della Repubblica, Atti Parlamentari, Doc. LXVII. E’ a questo documento che si riferiscono i dati riportati in questa sezione.
(17) Per un confronto più adeguato tra i dati di diversi anni abbiamo applicato il Coefficiente di rivalutazione monetaria fornito dall’Istat per l’anno 2006 disponibile in: www.istat.it/prezzi/precon/rivalutazioni/val_moneta_2006.html pertanto, tutte le cifre, tranne quelle riguardanti le singole commesse e le transazioni bancarie, riportate in questo studio sono espresse in valori costanti calcolati sul suddetto coefficiente.
(18) Per l’elaborazione dei dati riguardanti l’Unione europea e della Nato si è tenuto conto del differente anno di ingresso dei vari Paesi nell’Ue e nella Nato.
(19) Sulle modifiche apportate dal Governo Berlusconi nel 2003 alla legge 185/1990 si veda il mio studio: “Commercio delle armi: dalla legge italiana alla campagna europea”, in Annuario della pace 2003, pp. 240-244.
(20) In seguito agli interventi tenuti da propri rappresentanti, la Rete Italiana Disarmo ha inviato alle Commissioni di Camera e Senato un documento dal titolo: ”L’esportazione italiana di armamenti per il 2006: commento ai dati della Relazione governativa” (luglio 2007).
(21) Si veda il Rapporto del Presidente del Consiglio, Anno 2007, pag. 34.
(22) Tutta la documentazione al riguardo è disponibile sul sito della campagna: www.banchearmate.it al quale rimando per approfondimenti.
(23) Per un esame più dettagliato delle diverse politiche assunte dagli istituti di credito in materia di appoggio al commercio di armi si vedano, oltre ai numerosi articoli riportati sul sito della Campagna www.banchearmate.it si vedano i seguenti miei articoli: “Banche e armi: un bilancio a sei anni dalla Campagna”, in Missione Oggi, gennaio 2006; “Export di armi: record di affari in vent’anni”, in Missione Oggi, maggio 2007.
(24) Il direttore Generale di Banca di Roma ha espresso queste linee in un suo intervento al primo convegno nazionale della Campagna “banche armate” tenutosi a Roma nel gennaio 2006. Per un resoconto del convegno si veda il sito della Campagna.
(25) La nota pubblicata sul sito del Gruppo sottolinea che tale posizione intende, tra l’altro, “dare una risposta significativa a una richiesta espressa da ampi e diversificati settori dell’opinione pubblica che fanno riferimento a istanze etiche”. Si veda il comunicato “Policy settore armamenti” nell’area “Sostenibilità” del sito della banca www.intesasanpaolo.com e per ulteriori approfondimenti si veda l’articolo: http://unimondo.oneworld.net/article/view/151278/
(26) Si veda al riguardo il mio articolo in Unimondo: http://unimondo.oneworld.net/article/view/134575/
(27) La Commissione Europea ha avviato all’inizio del 2006, tramite la Direzione Generale Enterprise and Industry, un confronto con gli Stati Membri sulla “Intra-Community Circulation of Products for the Defence of Member State” allo scopo di definire linee guida per “facilitare il mercato dei trasferimenti interni di armamenti dei Paesi dell’Unione europea” sulla base di uno studio affidato alla Unisys Belgium. Al riguardo si veda: http://ec.europa.eu/enterprise/regulation/inst_sp/defense_en.htm
(28) La Rete Italiana per il Disarmo (Rid) è un coordinamento di oltre trenta associazioni delle società civile italiana nato nel 2003, in seguito all’azione della Campagna in difesa della Legge 185/90, per favorire un interscambio di informazioni e una continua collaborazione fra le organizzazioni che si occupano di monitorare la produzione e il commercio italiano e internazionale di armi in rapporto al rispetto dei diritti umani, alla pace e al disarmo. Tutte le informazioni al riguardo sono reperibili sul sito: www.disarmo.org
(29) La Campagna di pressione alle “banche armate” opera da tempo con le principali reti europee per il controllo delle operazioni di finanziamento alla produzione e al commercio militare tra cui segnaliamo ENAAT, www.enaat.org
(30) Gli Stati Uniti – con altri Paesi tra cui Russia, Cuba, India, Iran, Israele e Pakistan – si erano opposti anche nel luglio del 2006 all’espansione del Programma di Azione dell’Onu in esame durante la Seconda Conferenza delle Nazioni Unite sul traffico illecito di armi piccole e leggere: http://www.un.org/events/smallarms2006 per una sintesi della Conferenza si veda il mio articolo: “Nazioni Unite: vince la lobby armiera”, in Missione Oggi, ottobre 2006.
(31) Il testo della risoluzione 61/89 dell’Assemblea generale dell’Onu e delle risposte inviate dai diversi paesi al Segretario generale delle Nazioni Unite in merito al Trattato internazionale sul commercio di armi sono accessibili dal sito: http://disarmament.un.org/cab/ATT/index.html
(32) Tutte le informazioni sulla campagna internazionale Control Arms sono disponibili al sito www.controlarms.org in Italia la campagna è stata promossa dalla Sezione italiana di Amnesty International e dalla Rete italiana per il Disarmo: il sito italiano della campagna è: www.controlarms.it
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