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Analisi geopolitica

Le B61 dalla Turchia all’Italia e la logica del bastone atomico

In “Antifascismo e nonviolenza”, Mimesis edizioni, 2017, scritto insieme a Laura Tussi e Fabrizio Cracolici, abbiamo tentato di spiegarlo. La nonviolenza è una forza ed è la forza più potente: la forza dell’unione popolare quando ricerca verità e giustizia universali
4 gennaio 2020
Alfonso Navarra, Disarmisti Esigenti - Rete ICAN Premio Nobel per la Pace

La forza della nonviolenza

Analisi geopolitica 

La “logica del bastone” è un modo popolaresco per indicare la funzione della forza armata nelle partite geopolitiche: gli scontri militari in cui sono in gioco rapporti di potere e di potenza, inclusi il controllo di risorse naturali e sbocchi commerciali, nelle controversie internazionali.

La violenza organizzata, minacciata ed applicata, ha un ruolo e funziona: questo bisogna riconoscerlo e affermarlo, checché ne dica la nonviolenza ideologica, il pacifismo del “vogliamoci tutti bene”.

Il funzionamento è però relativo, provvisorio, non assicura la agognata “stabilità”, l’obiettivo proclamato della geopolitica “realistica”, che sostiene sempre di voler garantire lo status quo, identificato con la “pace”.

L’ordine imposto con la violenza è sempre temporaneo, posticcio, dipendente da una continua repressione della rivolta che cova sotto la cenere fino a quando esplode.

Un esempio lo vediamo in questi giorni con la “democrazia” esportata in Iraq con le armi dopo l’invasione USA del 2003.

Il regime di Saddam Hussein è stato abbattuto, è subentrato con il tempo un governo a maggioranza sciita relativamente collaborazionista, influenzato dall’Iran; contro questo governo abbiamo avuto la ribellione dell’ISIS (supportata nascostamente da Turchia e Arabia Saudita) e assistiamo oggi alla ribellione giovanile in stile primavere arabe (preghiamo per questi ingenui ragazzi). Nulla che comunque possa essere identificato con una situazione democratica solida e duratura che schieri l’Iraq in modo affidabile nel “campo occidentale” a leadership americana.

Un esempio di “logica del bastone” che sta funzionando, nel senso relativo, provvisorio e limitato che si diceva, lo vediamo messo oggi in atto contro l’influenza italiana in Libia. Avevamo a Tripoli un governo “amico”, riconosciuto dall’ONU, garantito a parole dagli USA, quello di Serraj, vicino alla Fratellanza Musulmana e difensore dei pozzi di petrolio e gas sfruttati dall’ENI.

Questo governo da aprile 2019 è sotto pressione militare  per una offensiva scatenata dal generale anti-islamista Khalifa Haftar, che da Bengasi controlla l’Est del paese, probabilmente istigato sottobanco in origine dalla Francia, vogliosa di sostituire l’ENI con la TOTAL.

Bene, oggi vediamo che ai due litiganti europei, Italia e Francia, dietro alle beghe tribali e identitarie locali, stanno subentrando, proprio in virtù della “logica del bastone”, due protagonisti extra-europei, la Turchia e la Russia.

La Russia si è infilata con il suo esercito mercenario, la brigata Wagner, affiancando il traballante LNA di Haftar, il cui assalto a Tripoli si era impantanato rischiando di trasformarsi in una rotta rovinosa per l’intervento delle tribù di Misurata. Le forze di Haftar, grazie ai contractors russi (formalmente privati, di fatto vicini a Putin) però riescono a mantenere Tripoli sotto assedio.

Ma a questo punto abbiamo il colpo di scena: a garantire la sopravvivenza del cosiddetto Governo di Accordo Nazionale di Serraji si fa viva la Turchia di Erdogan con il pretesto di colpire gli amici degli Emirati Arabi Uniti, accusati di stare dietro un tentativo di colpo di Stato militare ad Ankara, nel 2016, probabilmente con il benestare americano. Senza approfondire ora le vicende interne turche, e del colpo di Stato fallito che ha creato un bel problema alla NATO, torniamo al punto che vogliamo illustrare. Cosa fa sì che la partita libica da un mascherato contenzioso franco-italiano passi ad una ormai palese spartizione tra Russia e Turchia, facente fuori i patetici tavoli diplomatici imbastiti dall’Italia e dall’Unione Europea?

Dovrebbe essere facile riconoscere che la differenza viene fatta dalla disponibilità di russi e turchi di non fornire solo armi dall’esterno ai contendenti, ma di schierare truppe sul campo, soldati in carne ed ossa, con gli stivali sul terreno, che rischiano sangue vero in operazioni condotte in loco.

Contano e conteranno sempre di più perché senza questa decisione rischiosa, supportata dal pieno esplicarsi della forza delle armi, i loro “protetti” salterebbero.

Serraji è stato afferrato per la gola e non saranno certamente le chiacchiere (ed anche gli eventuali soldi) del nostro Ministro degli Esteri Di Maio a potere impedire che venga strozzato.

La Turchia con le sue truppe è il bastone di salvataggio.

Se Haftar viene sconfitto nel suo assedio come Napoleone a cui si paragona farà a Bengasi la fine del suo ex capo e amico Gheddafi.

La Russia con la Wagner è il bastone di salvezza, ben oltre le sparate roboanti di Macron.

La morale della favola generale che possiamo trarre da questo esempio particolare è: se c’è un conflitto in corso, per territorio, risorse, relazioni di potere, nel mondo della corsa alla potenza, serve agitare ed usare il bastone (= la forza armata) per prevalere sul contendente e metterlo a posto.

Questo dovrebbe aiutarci a capire l’importanza e l’attualità del “bastone atomico”, il più potente e distruttivo che ci sia.

Non è decisivo che sia effettivamente usato, basta semplicemente che sia agitato, messo sul tavolo delle partite conflittuali che si stanno giocando.

Una regola della geopolitica nell’era atomica è molto semplice e recita: uno Stato dotato di armi nucleari non può essere attaccato sul suo territorio con eserciti dotati di sole armi convenzionali.

C’è una differenza di rango nell’arena mondiale tra l’essere una potenza nucleare effettiva, una potenza nucleare latente, uno Stato con capacità nucleari (date dallo sviluppo del nucleare cosiddetto civile), ed uno Stato difeso da soli eserciti convenzionali, per quanto massicci.

Non è un caso che i cinque Stati nel consiglio di sicurezza dell’ONU con diritto di veto siano potenze nucleari effettive.

La “condivisione nucleare” non è un accessorio opzionale e secondario della Alleanza Atlantica, ma il suo cemento unificante nella fase fondativa ed anche adesso, a Guerra Fredda terminata.

L’”ombrello atomico” USA ha consentito al “blocco occidentale” di controbilanciare la superiorità convenzionale dell’URSS e le dottrine di impiego delle armi nucleari prevedevano (e prevedono) la guerra nucleare limitata al teatro europeo con il “first use” delle atomiche “tattiche” sul campo di battaglia.

All’URSS sconfitta è subentrata la Russia di rango geopolitico molto minore, nonostante i tentativi di Putin di riconquistare un ruolo globale (e l’essere superpotenza nucleare comunque conta); ma il nucleare della NATO ha comunque la funzione di “tenere gli europei sotto gli americani”.

L’Europa divisa nei suoi staterelli, non seriamente integrata dal punto di vista politico e della difesa, semplice unione commerciale e monetaria, è (e deve restare) un semiprotettorato degli USA ed a questo scopo la NATO nuclearizzata serve a presidiarla militarmente con uno schieramento di truppe molto ridotto: 65.000 soldati americani, oggettivamente un numero ridicolo, controllano un continente confederato di oltre 500 milioni di abitanti distribuiti su 4 milioni di km2 di territorio!

Le basi con armi nucleari USA risparmiano il mantenimento di almeno un milione di soldati a supporto di un ruolo di egemonia politica che si traduce anche in ingerenza più o meno nascosta negli affari interni degli Stati europei.

L’ombrello atomico USA durante la Guerra Fredda era ovviamente utilissimo alle élite dominanti europee per mantenersi al potere e contenere le spinte rivoluzionarie dei movimenti dei lavoratori.

Oggi questa funzione è venuta meno ed assistiamo quindi ad una crisi di identità della NATO, espressa ad esempio dalle parole di Macron, alla vigilia del vertice del 70ennale svoltosi in dicembre a Londra, su un suo “stato decerebrato”.

Il vertice ha comunque ribadito che il militarismo transnazionale non chiude affatto i battenti, ma va avanti, incluse le strategie di condivisione nucleare, oggi sicuramente più per inerzia che per convinzione. L’articolo 5, cuore del Trattato, è stato riaffermato nel comunicato finale emerso da Londra: “Riconfermiamo il duraturo legame fra Europa e America del Nord e il nostro solenne impegno contenuto nell’articolo 5 del trattato di Washington che un attacco contro uno degli alleati debba essere considerato un attacco contro tutti noi”. Ma cominciano a rafforzarsi i dubbi sulla effettiva volontà americana di volerlo rispettare, in termini stringenti come ai tempi in cui il problema centrale era il confronto globale tra i due "sistemi": la presunta libertà occidentale contro il presunto egualitarismo sovietico. Sulla deterrenza nucleare il Summit ha deciso "l’ulteriore rafforzamento della nostra capacità di difenderci con un appropriato mix di capacità nucleari, convenzionali e anti-missilistiche, che continueremo ad adattare: finché esisteranno armi nucleari, la Nato resterà una alleanza nucleare". E ricordiamo che per la NATO gli arsenali nucleari restano sempre "la suprema garanzia di sicurezza".

In questa fine d’anno (2019) è stata diffusa una notizia, fonte un generale americano in pensione, i cui sviluppi potrebbero finalmente scuotere la letargia che da fin troppo tempo affligge l’opinione pubblica italiana sulla questione nucleare: 50 testate nucleari sarebbero pronte a traslocare dalla base turca di Incirlik, in Anatolia, alla base Usaf di Aviano, in Friuli Venezia Giulia. L’ANSA riporta quanto dichiarato dall'ex  USEUCOM Chuck Wald, che spiega la decisione in oggetto con la necessità di non ospitare le testate USA in Paesi gestiti da leader inaffidabili come la Turchia del presidente Erdogan.

Il governo italiano dichiara che la notizia è priva di fondamento. Ma gli indizi che invece delle basi di credibilità esistono sono numerosi e non sottovalutabili, a partire proprio dalla diffidenza che l’amministrazione USA nutre per il leader turco. A Ghedi ed Aviano gli F35 potranno attivarsi per missioni nucleari in cui si trasporteranno B61-12, teleguidate da un sistema  satellitare al posto delle attuali B61 a gravità, e il programma globale del Pentagono prevede la costruzione a partire dal 2021 di 500 B61-12, con un costo di circa 10 miliardi di dollari.

Ricorda Manlio Dinucci sul Manifesto del 31 dicembre 2019: “Gli Usa si preparano a schierare in Italia e altri paesi europei missili nucleari a gittata intermedia (tra 500 e 5500 km) con base a terra, analoghi agli euromissili eliminati dal Trattato Inf firmato nel 1987 da Usa e Urss. Accusando la Russia (senza alcuna prova) di averlo violato, gli Usa si sono ritirati dal Trattato, cominciando a costruire missili della categoria prima proibita: il 18 agosto hanno testato un nuovo missile da crociera e il 12 dicembre un nuovo missile balistico, quest’ultimo in grado di raggiungere l’obiettivo in pochi minuti".

Le armi nucleari saranno pure  “obsolete”, come le definisce la direttrice esecutiva di ICAN Betarice Fihn, ma sicuramente con maggiore certezza sono oggetto di una massiccia corsa all’ammodernamento e al rilancio (si risparmiano in questa sede per ragione di brevità i particolari) che non riguarda solo gli USA e coinvolge anche Russia e Cina. Ed altri ancora, se si vuole dare un quadro completo. Stiamo parlando di migliaia di miliardi di dollari che dal punto di vista militare sono spesi benissimo, anche se dal punto di vista globale dell’umanità rappresentano un rischio mortale.

Nel sistema della potenza la “logica del bastone atomico” funziona, anche se può portare ad una guerra non intenzionale che può significare la scomparsa della vita umana sulla Terra. Bisogna capire bene questo assunto nel momento in cui ci si batte per il disarmo nucleare: non serve sottovalutare l’avversario e l’argomento non può essere quello di certe campagne contro gli F35: “Sono bidoni che neanche si sollevano da terra”.

Lo sforzo deve essere indirizzato a contrapporre, con chiare e realistiche strategie nella situazione concreta, alla “logica del bastone”, che si sviluppa oggettivamente nel “bastone atomico”, poggiante sulla sfiducia nell’altro come competitore antagonistico, la logica alternativa del lavorare insieme, del collaborare sui veri problemi comuni, l’ingiustizia, l’inquinamento, il controllo sociale sulla scienza, che fa perno sulla fiducia nel prossimo come fattore di completamento e di arricchimento.

In “Antifascismo e nonviolenza”, Mimesis edizioni, 2017, scritto insieme a Laura Tussi e Fabrizio Cracolici, abbiamo tentato di spiegarlo. La nonviolenza è una forza ed è la forza più potente: la forza dell’unione popolare quando ricerca verità e giustizia universali. Non può essere messa in campo se si tratta di difendere un tagliagole contro un altro – che so, Serraji contro Haftar – per portare avanti sporchi interessi petroliferi!

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