Palestina

Indovina chi viene all'Onu

Nelle prossime ore, Mahmoud Abbas chiederà alle Nazioni Unite il riconoscimento della Palestina. E israeliani, americani e europei sono sottosopra. Eppure, gli effetti della sua iniziativa non sono chiari a nessuno
21 settembre 2011

 

L'ultima volta che mi è capitato di contarle, sei mesi fa, le risoluzioni su Israele e Palestina erano 810 per l'Assemblea Generale, e 275 per il Consiglio di Sicurezza. Con le dichiarazioni di indipendenza, invece, siamo all'inizio: quella in arrivo è solo la terza. Quasi la quarta, in realtà: nel 1999 Arafat ingranò la retromarcia a testo già scritto. Finendo per spiaggiarsi, un anno dopo, sul prato di Camp David. E sulla seconda Intifada.

Ma avventurarsi in previsioni non ha molto senso. Per quanto strano possa sembrare, infatti, il diritto internazionale non disciplina in termini univoci l'acquisizione della qualifica di stato. Le eccezioni sono più delle regole. Quello che è cer-to, in mezzo alla giurisprudenza più disparata, è che il riconoscimento rimane una questione politica, non giuridica. Una scelta, cioè, non un obbligo: esprime semplicemente la disponibilità alle relazioni diplomatiche. Ma a rigore, il ricono-scimento non implica, così come il non-riconoscimento non nega, la statualità - l'esempio più noto è Taiwan: ha tutte le caratteristiche di uno stato: ma formalmente non esiste. L'unica prova incontrovertibile della statualità è l'ammissione alle Nazioni Unite. Ma questa è anche l'unica strada incontrovertibilmente preclusa ai palestinesi, dal momento che ri-chiede un passaggio in Consiglio di Sicurezza. E gli Stati Uniti hanno già anticipato il proprio veto.

 

la "blue chair", simbolo della campagna per il riconoscimento dello stato di Palestina e la sua ammissione alle Nazioni Unite La Palestina, alle Nazioni Unite, ha status di osservatore permanente. Come l'Unione Europea, la Croce Rossa. L'obiet-tivo è uno status di osservatore come stato non membro, invece che entità indefinita: come il Vaticano.

Ma un simile cambiamento non avrebbe effetti rilevanti. Non nell'ambito delle Nazioni Unite, in cui la Palestina è già un osservatore abbastanza speciale: in Assemblea Generale, partecipa a qualsiasi dibattito, non solo quelli in cui è coin-volta, come è norma per un osservatore, mentre in Consiglio di Sicurezza il suo rappresentante interviene secondo la procedura riservata agli stati, e non agli individui, che si ritiene opportuno ascoltare. Ma soprattutto, un simile cambia-mento non avrebbe effetti concreti nei rapporti con Israele. Che non si convertirebbe da stato occupante a stato aggres-sore, come già celebrano i teorici del diritto creativo: la qualifica di aggressore è propria dello jus ad bellum, che disci-plina il ricorso alla forza, non dello jus in bello, che disciplina la condotta delle ostilità. E il ricorso alla forza, in Pale-stina, si è avuto quarantaquattro anni fa. Si continuerà ad applicare la Quarta Convenzione di Ginevra.

Mahmoud Abbas, in realtà, non fa che ripeterlo: l'obiettivo vero è tornare ai negoziati. Esattamente il contrario, quindi, di quanto sostiene Israele, che accusa i palestinesi di violare Oslo, e l'impegno a una soluzione concordata e condivisa. Si tenta, è evidente, di attribuire preventivamente responsabilità e marchi di infamia per un'eventuale ondata di violen-za. Ma l'accusa non ha fondamento. Il riferimento è all'articolo 31(7) degli Accordi di Oslo: l'impegno ad astenersi da iniziative che possano modificare lo status dei Territori fino alla definizione dello status finale - fino alla definizione, cioè, delle quattro questioni controverse: i confini, Gerusalemme, gli insediamenti, e i rifugiati. Ma Israele conosce be-ne il valore di un articolo determinativo - nell'interpretazione della risoluzione 242, come è noto, gioca tra il ritiro from territories occupied, prescritto dal testo inglese, e il più specifico ritiro des territoires occupés del testo francese: dichia-randosi così tenuto a ritirarsi non da tutti, ma solo da alcuni dei territori occupati nel 1967. E gli Accordi di Oslo, analo-gamente, puntualizzano: pending the outcome of the permanent status negotiations. Il vincolo dell'articolo 31(7) è rife-rito cioè non all'esito di negoziati generici, ma all'esito dei negoziati imbastiti nel 1993 a Oslo, secondo una precisa inte-laiatura di tempi e modalità. E naufragati, appunto, nel 2000, sull'erba di Camp David.

L'iniziativa di Mahmoud Abbas non solo non è una violazione di Oslo: corona, all'opposto, l'adempimento degli obbli-ghi imposti ai palestinesi dalla Road Map, che è dal 2002 il retroterra giuridico e politico della parola negotiations - è l'attuale processo di pace. La Road Map chiama i palestinesi a contrastare il terrorismo e costruire proprie istituzioni. Ed è quanto ha certificato la Banca Mondiale: secondo i suoi rapporti, la Palestina è pronta all'indipendenza.

 

L'obiettivo di Mahmoud Abbas è tornare ai negoziati forte dell'arsenale del diritto internazionale. E cioè, sostanzialmen-te, dell'ammissione alla Corte Internazionale di Giustizia, e soprattutto, al Tribunale Penale Internazionale. Ma il per-corso, qui, è decisamente impervio. Senza l'ammissione alle Nazioni Unite, infatti, ai giudici non rimarrà che verificare l'esistenza dei quattro tradizionali requisiti della statualità: una popolazione insediata su un territorio dalle frontiere de-finite e soggetta a un governo effettivo e sovrano, capace di intrattenere relazioni con gli altri stati.

Il punto problematico è il terzo: l'Autorità Palestinese, se forse è effettiva, certo non è sovrana. L'ultima parola, anche in Area A, è sempre di Israele. Tuttavia per James Crawford, il più autorevole esperto in materia, il requisito del governo è da esaminare in modo più o meno rigoroso a seconda delle circostanze: a seconda cioè che il territorio sia o non sia og-getto di più rivendicazioni - come in questo caso: perché Israele non chiede l'annessione dei Territori, e ha accettato la prospettiva dei due stati: contesta le modalità e i tempi, chiede la smilitarizzazione, difende gli insediamenti: ma discute i dettagli, non il principio. Il requisito del governo ha in realtà due dimensioni: indica sia l'effettivo, autonomo esercizio del potere, sia il diritto a esercitarlo - la legittimità della propria pretesa. Il popolo palestinese ha un diritto all'autode-terminazione che Israele è tenuto a rispettare: Israele non può sostenere che la Palestina non è uno stato perché non ha un governo sovrano, perché la Palestina non ha un governo sovrano perché è occupata da un'occupazione strutturalmen-te illegale, intossicata da elementi di colonialismo e apartheid. L'Autorità Palestinese non ha compiuta indipendenza non per sua incapacità e responsabilità, ma per un atto illegale altrui. E non è possibile appellarsi a una propria condotta illecita per svincolarsi da un obbligo giuridico: è un principio generale del diritto, non solo internazionale.

Quanto al Tribunale Penale Internazionale, poi, è necessario essere stati ai sensi dello Statuto. Quello che rileva, cioè, non è il governo in generale, ma la titolarità di quella giurisdizione penale che si intende delegare al Tribunale. Ed è una titolarità che la Palestina, nonostante le restrizioni di Oslo, non può non avere: si parla infatti di crimini di guerra e cri-mini contro l'umanità, per cui vige per chiunque l'aut dedere aut iudicare - processare o estradare.

Ma avventurarsi in previsioni, ancora, non ha molto senso. I giudici hanno a volte la trasparenza e l'onestà degli Anto-nio Cassese; più spesso un'ombra, addosso, e un'etichetta con il prezzo, come i Moreno Ocampo.

 

Tutto dipende, in definitiva, dai prossimi mesi: è fondamentale che l'Autorità Palestinese si dimostri capace di governa-re. E il ricorso alle Nazioni Unite rischia di innescare una reazione statunitense diretta a colpire esattamente questa ca-pacità: il taglio degli aiuti, pari a un quarto del bilancio - in un'economia con la disoccupazione al 40 percento e la pub-blica amministrazione come primo datore di lavoro. E il tracollo potrebbe non essere solo finanziario: l'intesa tra Fatah e Hamas è congelata, i giovani sono disincantati e in guardia. Lo stesso Mahmoud Abbas è sul piedistallo fragile di un mandato presidenziale scaduto da mesi. Mentre i rifugiati si chiedono quale sarà il destino dell'OLP, loro unica voce ora scalzata dall'Autorità Palestinese. E mentre intorno, intanto, dispersi i teppisti davanti alle ambasciate e i fumogeni dei discorsi ufficiali, per Egitto e Turchia i palestinesi non rimangono che merce di scambio.

Il massimo che si può ricavare dal ricorso alle Nazioni Unite, oltre a una guerra, è l'adesione al Tribunale dell'Aja. Che non ha, però, una sua polizia giudiziaria, e per agire ha bisogno della cooperazione degli stati. E la musica sul Titanic è stata troppo forte, in questi giorni, perché qualcuno si accorgesse che la Gran Bretagna intanto ha emendato la sua legge sulla giurisdizione universale per impedire l'arresto di israeliani accusati dei crimini di Piombo Fuso.

Note: Francesca Borri, 1980, è autrice di "Qualcuno con cui parlare. Israeliani e palestinesi", Manifestolibri 2010. Vive al Cairo.

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