La lunga lotta solitaria di Angelo Graziano

Vita da sindacalista in terra di mafia

Tra intimidazioni e minacce, un delegato Fiom contro la mafia, in una fabbrica legata alla Fiat e ricattata da un boss-operaio.
Massimo Giannetti
Fonte: Il Manifesto - 27 gennaio 2006

Al recente congresso della Fiom siciliana il delegato Angelo Graziano è stato accolto come una «specie rara». In effetti persone come lui di questi tempi bisogna cercarle con la lanterna, nella Sicilia soffocata dalle estorsioni mafiose. Ha 53 anni, trentadue dei quali passati dietro le presse di una fabbrica dell’indotto Fiat, ma il suo curriculum è segnato da una durissima e quasi solitaria battaglia antimafia condotta per anni sul posto di lavoro. Ha subìto minacce e attentati, ma non ha ceduto alle intimidazioni neanche quando gli è stata bruciata una casa in campagna. «Me l’hanno incendiata due volte - precisa il sindacalista della Cgil - ma anziché venderla l’ho sempre ricostruita. Mi ero imposto di andare avanti, perché se facevo vedere che avevo paura sarebbe stata la mia fine, era quel che volevano loro». La mafia voleva il suo silenzio. Graziano invece, rischiando la vita, ha sempre denunciato tutto ciò che accadeva in fabbrica.

I fatti si svolgono a Vicari, un paese di tremila abitanti in provincia di Palermo, dove all’inizio degli anni Settanta Gaetano Gizzi, un palermitano emigrato a Torino e tornato in Sicilia con un contratto della Fiat, mette su l’azienda metalmeccanica Iposas (Industria precisione officina specializzata attrezzature stampi), che sin da allora dà lavoro a una cinquantina di persone. Il suo futuro è garantito dallo stabilimento di Termini Imerese per il quale costruirà per oltre trent’anni componenti di lamiera per tutte le auto che la casa torinese produrrà in Sicilia: dalla mitica Fiat 500 fino all’odierna Punto. Il giro di affari è ragguardevole (è una delle più grandi aziende della provincia) e non può certo sfuggire al mirino di Cosa nostra. Che infatti iscrive subito la Iposas nel suo «libro mastro».

Tassa di protezione

L’azienda inizialmente pagherà il pizzo - la «tassa di protezione» di cui ancora oggi è vittima silenziosa il settanta per cento delle imprese che operano nell’isola - ma la mafia non si accontenta, pretende molto di più, vuole controllarla dall’interno. L’imprenditore Gizzi, dopo le prime lettere minatorie, accenna qualche resistenza, ma ha paura e per «quieto vivere» scende a patti con i propri aguzzini. E i patti del caso li stabilisce una delle cosche che in quel periodo si contende la supremazia nell’importante «mandamento» di Vicari. E’ capeggiata da Salvatore Umina (sarà poi ritenuto dai magistrati un fedelissimo di Bernardo Provenzano) il quale impone alla Iposas la sua assunzione in fabbrica insieme a quella di alcuni suoi parenti e amici.

Il metodo è il seguente: «Una mattina - racconta Graziano - trovammo due candelotti con la miccia spenta dentro una pressa - l’avvertimento era chiarissimo: o l’azienda accettava la richiesta o saltava la fabbrica». Passò poco tempo e il boss fu assunto come operaio. Un operaio con un salario da dirigente (5 mila euro le ultime parcelle). «Nei fatti riscuoterà il pizzo direttamente in busta paga - prosegue Graziano - l’azienda lo riteneva `un abusivo’ ma non lo ha mai voluto denunciare, nonostante le nostre sollecitazioni. Ha sempre mostrato soggezione. Ricordo che ad una delle prime riunioni sindacali, il datore di lavoro si presentò insieme a Umina. E quando io chiesi a quale titolo il noto mafioso doveva assistere alle trattative, non ebbi nessuna risposta. Un silenzio imbarazzante. Mi alzai e abbandonai la riunione».

Siamo nel lontano 1978: per il boss è l’inizio della «scalata» nell’azienda; per il sindacalista, che non ha mai voluto legittimarne la presenza in fabbrica, comincia invece uno scontro dagli esiti imprevedibili, visto il terreno minato in cui questo avviene. Sono anni in cui la mafia spara e uccide, imperversa la «lupara bianca».

A Vicari in quel periodo è in atto una guerra feroce tra le «famiglie d’onore». Una di queste, la più potente, ha al vertice Mariano Marsala, un nome piuttosto noto nei casellari giudiziari siciliani. Il boss Marsala scompare improvvisamente nel nulla e della sua scomparsa viene accusato proprio Umina, all’ora quarantenne emergente, che punterebbe a prendere il suo posto nel controllo dei traffici di Cosa nostra nella zona tra Palermo e Agrigento. Al processo, siamo nel 1981, l’accusa di omicidio cade per insufficienza di prove, ma per il «boss operaio» si aprono comunque le porte del carcere: viene condannato a dodici anni per associazione mafiosa, estorsione e favoreggiamento.

Alla Iposas è un sollievo, ma dodici anni, benché lunghi non sono un’eternità. Scontata la pena, Umina non solo tornerà in fabbrica, ma accrescerà il suo potere, nonché il livello di intimidazione.

«Sarà riassunto e di fatto se ne impossessa - racconta ancora Graziano - l’azienda, ricattata, gli dà di fatto carta bianca. A un certo punto lo nomina addirittura responsabile della sorveglianza. Come Cgil denunciammo l’azienda per violazione dello statuto dei lavoratori, che vieta il controllo degli operai, ma il capomafia continuò a spadroneggiare: sarà lui a decidere ritmi di lavoro, assunzioni, licenziamenti o persone da mandare in cassa integrazione. Chiunque si avvicinava al nostro sindacato veniva punito, subiva attentati». Il bersaglio principale però è lui, Graziano, che è anche responsabile della sicurezza degli operai. Per fargli capire che doveva stare molto attento, gli squarceranno le ruote dell’auto parcheggiata dentro la fabbrica, praticamente davanti ai suoi occhi.

Eletto vicesindaco

Arriviamo ai primi anni Novanta e al comune di Vicari intanto cambia amministrazione. Va al governo il centrosinistra e Graziano viene eletto vicesindaco. E’ una posizione, questa da amministratore pubblico, che se da una parte rafforza la sua battaglia, da un’altra lo mette ancora più a rischio. La strategia del boss, che a questo punto forse non dispiace neanche all’azienda, benché ricattata, è fare terra bruciata intorno al sindacalista ribelle. «In fabbrica fu instaurato un clima di paura. L’omertà era quasi totale».

E’ in questi anni che a Graziano verrà incendiata la casa in campagna, a seguire anche l’auto, e poi di nuovo la casa appena ricostruita.

Tutti episodi che lui denuncia puntualmente a magistratura e carabinieri. Umina, che secondo Graziano è il mandante, finisce di nuovo sotto processo, ma viene assolto, anche in questo caso, per insufficienza di prove.

«E’ stato un periodo bruttissimo - racconta il delegato Fiom, che in fabbrica svolge anche le funzioni di responsabile della sicurezza degli operai - ero isolato sia al lavoro sia in paese. I miei familiari, preoccupati per la mia vita, mi chiedevano di abbandonare sia il sindacato sia la politica. La gente aveva paura di farsi vedere in mia compagnia. Mi evitava. Però ho avuto anche tanta solidarietà».

Alla Iposas il sindacato che aveva più iscritti era la Fim Cisl, che in tutta questa storia però non vede, non sente, non parla. Se ne lava decisamente le mani anche l’associazione regionale degli industriali, alla quale peraltro è iscritta la Iposas: «I dirigenti dell’Assosicilia, ai quali denunciai quanto avveniva nell’azienda in un incontro a Palermo, mi risposero che `certi problemi non li riguardavano, perché loro si occupavano soltanto di relazioni sindacali’».

Si avvicina la crisi della Fiat che investe anche le aziende dell’indotto di Termini Imerese. Nel 2003 la Fiom manda di nuovo in tribunale la Iposas per discriminazione sindacale: «Mise in cassa integrazione tutti i nostri iscritti, una dozzina. La lista l’aveva preparata Umina». Anche in questa occasione la magistratura condanna l’azienda e ordina il rientro degli operai Cgil in fabbrica. La Iposas nel frattempo è stata ereditata dai figli di Gaetano Gizzi, deceduto. Ma la musica è sempre la stessa, anzi l’azienda dimostra di aver letteralmente abdicato davanti alla prepotenza della mafia, che a Vicari ha intanto condizionato (lo dirà successivamente una sentenza della procura di Palermo) anche l’esito delle elezioni comunali. Al governo del paese (siamo nel 2002) ora c’è il centrodestra, con sindaco dell’Udc, e il boss Umina sembra dio in terra. In fabbrica - emergerà ad un altro processo che un anno dopo lo porterà di nuovo in carcere - è un viavai di politici che ricevono ordini da lui. Tra gli astanti anche due assessori, uno di Forza Italia e l’altro dell’Udc, ai quali il capomafia chiede conto di certi appalti pubblici affidati a una ditta piuttosto che a un’altra, e li invita, come avvertimento, a trasmettere il proprio disappunto al primo cittadino.

160mila euro sotto il cuscino

Le manette per Umina scattano una mattina di luglio del 2004: durante la perquisizione i carabinieri gli sequestrano 160mila euro, frutto delle estorsioni a aziende e commercianti, nascosti sotto al cuscino. Oltre al boss finiscono in carcere una decina di persone, tra queste tre operai della Iposas. L’accusa per tutti è di associazione mafiosa e estorsione. Umina patteggia e sarà condannato ad altri sette anni di galera. Anche il comune sarà presto sciolto per infiltrazioni mafiose e voto di scambio. Alla cosca di Vicari verranno sequestrati beni per un valore di 5 milioni di euro. Per la criminalità organizzata è un duro colpo. Tant’è che cede anche l’omertà dei proprietari della Iposas. L’amministratore aziendale, Francesco Gizzi, accusato di favoreggiamento nei confronti della mafia, messo alle strette ai magistrati ammetterà di essere stato vittima delle estorsioni di Umina.

Per Graziano e pochi altri, tutti questi ultimi eventi rappresentano una sorta rivincita, sebbene tardiva, della loro battaglia per la legalità. Ma la gioia di essersi liberati dalla mafia nel posto di lavoro, purtroppo, non dura molto. L’epilogo della storia suona infatti come beffa tremenda. E’ l’inizio del 2005 e la Fiat, che ha deciso di realizzare tutta la nuova Ypsilon nel suo stabilimento di Termini Imerese, taglia le commesse alla Iposas, la quale, dichiarando di aver accumulato parecchi debiti, annuncia la chiusura della fabbrica per fallimento.

La Iposas chiude i battenti nel marzo scorso. Graziano e gli altri quaranta dipendenti (a proposito, arrestato Umina, la Fiom ha quasi triplicato gli iscritti), vanno in cassa integrazione ma solo per cinque mesi. Da settembre sono senza salario e senza alcuna prospettiva davanti. «Abbiamo chiesto aiuto su molti fronti: alla Fiat, alla regione Sicilia, al governo nazionale. Abbiamo fatto manifestazioni, blocchi stradali, ma fino ad ora non è successo nulla».

Uno spiraglio si è aperto proprio nelle ultime ore riguarda l’acquisizione della fabbrica, con la sua relativa riconversione (dovrebbe fare cassonetti per la raccolta differenziata dei rifiuti) da parte di un imprenditore, Pasquale Perrotta, il quale ha però posto due condizioni nel piano di rilancio presentato alla regione Sicilia: un sostegno economico pubblico e garanzie contro la presenza mafiosa.

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