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Taranto, terra di storia e poesia

Tra un clacson e un diadema

Viaggio nel Museo Archeologico Marta, alla ricerca delle radici della città
20 febbraio 2016
Cristina Sgobio

È una calda domenica d’inverno, di quelle che non vedevo da un po’, di quelle che se le cerchi non le trovi e se le ignori si rivelano. Insomma, è una calda domenica d’inverno, una calda domenica del sud.
Faccio in giro in centro, c’è chi fa shopping, chi compra il giornale, chi sfida la fortuna col gratta e vinci, chi passeggia portando addosso i segni di un lungo sabato sera, chi parcheggia in doppia fila perché “devo fare una cosa veloce, torno subito” e chi fa giro giro tondo in cerca di due strisce dove inserire la propria auto per quelle poche ore che restano della domenica mattina. Io sono tra questi ultimi. Quando trovo le tanto desiderate strisce libere, esulto come un ultras allo Iacovone. Scendo dall’auto, percorro Corso Umberto, imbocco via Cavour. La mia domenica mattina la trascorrerò qui, al Museo Archeologico Marta.
Basta entrare per lascarsi dietro i rumori delle auto, i clacson asfissianti, le sgommate in curva e il caldo Taranto, città greca IV-III sec a.C. Vaso per raccogliere il vino durante il simposio

torrido dell’inverno. Basta entrare per provare a conoscere Taranto, com’era e com’è diventata, per scoprire ciò che resta della città antica, completamente cancellata da quella moderna. Dalla città greca a quella romana, Taranto tra i secoli e i millenni, vista dagli occhi di bambini mano nella mano al proprio papà e di adulti tutt’orecchie alle parole della guida. Ma, in realtà, qui siamo tutti bambini. Proviamo tutti lo stesso stupore. Proviamo tutti la stessa emozione. E torniamo indietro, come se non esistesse l’oggi, come se non esistesse il domani. E torniamo indietro, scaviamo nella storia complice del nostro presente. E torniamo indietro, guardiamo attoniti i resti dei nostri antenati e immaginiamo le vesti dei nostri eredi. E torniamo indietro, scompariamo nell’immenso della nostra antichità, riscoprendo gli odori, i rumori, i sapori, gli umori di qualcosa che non c’è più, ma che resta ancorata al cordone che ci lega.
Anelli, orecchini, diademi, collane, bracciali, specchi. Eleganza, purezza, armonia, incanto, splendore, meraviglia, magia. Taranto, serbatoio di bellezze e segreti, di fascino e seduzione. Taranto terra d’altri tempi, terra spartana e terra romana, terra assaggiata, gustata, assaporata, scoperta, goduta, divorata. Taranto, terra d’amore e di lotte, terra invidiata e conquistata, terra voluta e desiderata. Statue, teste, ritratti, mosaici, fontane, vasche, vetri, colori. Solidità, resistenza, vigore, energia, potenza, vitalità, ardore, passione. Taranto eclettica, Taranto intima, Taranto sconvolta, Taranto arcana, Taranto oscura, Taranto rischiarata, Taranto amata.
E, come per incanto, la magia finisce qui. L’ultimo corridoio, l’ultimo sguardo, l’ultimo saluto a una città che ancora c’è, che ancora vive, che ancora lotta, che ancora ama e che ancora spera di essere amata.
Varco la soglia del Museo. Un autobus non riesce a passare perché c’è un auto parcheggiata in doppia fila.

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