La via americana al copyright
Non solo terrorismo. C’è un’altra guerra che gli americani combattono da molto più tempo (e con migliori risultati). È quella per la protezione, in casa e all’estero, di una delle principali industrie a stelle e strisce: la proprietà intellettuale. Un affare da 1.300 miliardi (sì, miliardi) di dollari all’anno, che interessa tanto i colossi dell’intrattenimento quanto i giganti del farmaco e ha bisogno di essere protetto con leggi adeguate, soprattutto oggi che la rivoluzione digitale mette in crisi modelli di business consolidati.
Dalle sedi più alte come la World intellectual property organisation (Wipo) delle Nazioni Unite alle legislazioni dei singoli stati, ovunque i rappresentanti Usa cercano di esportare, prima che democrazia, norme che proteggano le operazioni estere delle proprie multinazionali. Chiedere alla Svizzera, dove una legge approvata il 5 ottobre scorso dal Parlamento «importa» in terra alpina il Dmca, la normativa americana che ha adeguato il vecchio concetto di copyright all’ambiente di bit. In virtù dell’Art. 39 gli utenti elvetici non potranno tentare di aggirare i cosiddetti Drm, i lucchetti tecnologici che limitano la copia di file audio e video, e saranno puniti anche solo se diffonderanno informazioni su come evitare le restrizioni.
E se i canadesi si trovano di fronte ad analoga prospettiva, in Francia è Nicolas Sarkozy in persona a guidare la carica. In virtù di un accordo sottoscritto il 24 novembre da governo, fornitori di accessi internet e rappresentanti del mondo dell’intrattenimento, il presidente francese propone la creazione di una Autorità pubblica specializzata controllata dalla magistratura, per monitorare e ricevere denunce sui presunti pirati della rete. Una mossa politica prima che tecnica, pensata per compiacere l’amico americano. «C’è una campagna degli Stati uniti per proteggere il loro primo bene da esportazione: la proprietà intellettuale. E Sarkozy si accredita come l’alleato più stretto», spiega Francesco Sacco, Docente di strategie aziendali all’Università Bocconi di Milano ed esperto di questi temi.
Sul fronte delle pressioni, dalle nostre parti le cose non vanno molto meglio. Le cronache recenti segnalano le parole pronunciate il 24 ottobre scorso da Ronald P. Spogli. In un convegno alla Farnesina, l’ambasciatore americano ha ammonito che «nel campo della proprietà intellettuale, gli interessi americani subiscono danni ingenti in Italia». Questa situazione ha già provocato l’inserimento dell’Italia nel novero degli osservati speciali in materia e «può portare all’applicazione di sanzioni commerciali». Il problema, però, è un’applicazione più severa delle norme perché le leggi antipirateria nostrane sono, secondo Spogli, «ottime».
E non potrebbe essere diversamente, dopo tutto, visto che dalla Legge Urbani del 2004 editori e discografici (americani e italiani) hanno ottenuto molto. Tanto che, nel dubbio, è meglio non cambiare nulla. Lo dimostra ciò che accade in questi giorni nel Comitato consultivo permanente per il diritto d’autore presieduto dal professor Alberto Maria Gambino che il 18 dicembre prossimo presenterà al Ministro dei beni culturali Francesco Rutelli delle proposte tecniche per l’aggiornamento della normativa.
Secondo quanto affermano alcuni membri della Commissione su diritto d’autore e le nuove tecnologie del Comitato, editori ed etichette musicali non vogliono mutamenti sostanziali. Anche su temi apparentemente innocui come quelli delle biblioteche. «I rappresentanti degli editori hanno fatto un vero sbarramento», spiega per esempio Giovanni Figà Talamanca, professore di diritto commerciale all’Università di Tor Vergata. «Volevamo una soluzione ragionevole che adattasse le norme di prestito a una nuova realtà multimediale; niente di antagonista. Ci siamo trovati di fronte a un muro di natura politica più che tecnica». Dello stesso parere Marco Scialdone, avvocato, esponente dell’associazione Frontiere digitali, che parla di «ostruzionismo».
Insomma, lo zio Sam può dormire sonni tranquilli. Anche perché della Commissione fa parte Simona Lavagnini, avvocato specializzato in copyright, ma anche presidente del Comitato proprietà intellettuale della American chamber of commerce in Italy. Lavagnini - ci assicurano l’interessata e Gambino - è presente solo in quanto esperta della materia. Buono a sapersi, perché veniva quasi da pensar male visto che l’organo Usa da lei presieduto, si legge online, si occupa «di relazioni istituzionali, intervenendo nei processi consultivi preliminari e successivi alla emanazione di nuove norme e regolamenti, sia a livello nazionale, sia a livello europeo».
raffaele@totem.to
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