In memoria di Stefano Delli Ponti
Il 30 dicembre di tre anni fa moriva Stefano Delli Ponti operaio dell’Ilva ucciso da un tumore. Il suo nome è ricordato per la battaglia che condusse contro l’azienda; l’Ilva infatti bloccò la colletta organizzata dai suoi compagni di lavoro per permettergli cure all’estero.
Ripubblichiamo l’articolo apparso il primo gennaio 2014 sulla Gazzetta del Mezzogiorno e scritto il giorno prima: i funerali di Stefano Delli Ponti si celebrarono il 31 dicembre 2013.
Le agenzie di stampa contano chi c’è e chi no. Come se al funerale di un operaio dell’Ilva, il funerale di Stefano Delli Ponti, martedì 31 dicembre, vigilia di Capodanno, facesse differenza un gonfalone in più o in meno, un sindaco, un vescovo, un ambientalista (sempre assenti gli ambientalisti quando c’è da piangere un operaio) o un dirigente aziendale in più o in meno, per elevarlo al rango di cerimonia dei solenni addii
A salutare Stefano, morto dopo una lunga battaglia nella trincea dei tumori di fabbrica, quattrocento uomini e donne. Chi rivestiva una carica istituzionale (pochi, pochissimi, quasi nessuno) ha preferito mescolarsi tra quegli uomini e quelle donne della generazione perduta, la generazione Ilva: 35enni in bilico tra pane e veleno. Era il silenzio l’unica cifra da serbare per rispetto verso la bara di legno chiaro e il suo tragitto inesorabile come la pioggia dell’ultimo dell’anno.
Il sacerdote celebra le esequie alla chiesa di Sant’Egidio al Tramontone. Sant’Egidio, il santo dei poveri: “Dalla morte non si guarisce. Solo Dio guarisce”. Ma dal male di un lavoro che uccide guarire si può rispettando l’uomo. Altrimenti non avrebbe senso appellarsi a Dio: “Dio è gioia, è vita. Il male, la morte vengono dal nemico di Dio. Dio è con noi e vuol spezzare le catene della morte”. Piangeva sommessamente Doriana, la moglie di Stefano. E con lei i compagni di lavoro, gli occhi rossi delle albe e delle notti insonni d’acciaieria.
Raccontare il saluto a Stefano Delli Ponti è guardare non a una catena, ma a una corda; di quelle intrecciate dal cordaio Egidio, santo dei poveri. Ai due estremi del filo teso con violenza dal dramma, da un lato, le parole del compagno di lavoro dell’operaio morto, come lui ammalatosi di tumore e come lui costretto a rimanere in fabbrica per non subire decurtazioni dello stipendio, ché “col mutuo non si scherza, come diceva Stefano e io ora rivivo il suo dramma”. Dall’altro capo il dispensare tutti dalle condoglianze. Lo annuncia il sacerdote in chiesa. Finale asciutto com’era asciutto nel suo dire Stefano, nel suo agire, nel suo vivere. Non nel suo amare: “Chi penserà ai miei figli?”.
E’ una generazione perduta, la generazione Ilva. Consuma anche otto funerali in un anno, tra caduti in fabbrica e malati. L’abbiamo persa senza comprenderne il disperato bisogno di aiuto, il grido ingoiato dai rumori sordi dei piani di carico alle cokerie.
Polemizzare adesso sull’aiuto economico dato a Stefano pare delirante, di fronte a quella bara in legno chiaro pronta per il cimitero della terra rosso ruggine. Scrivono gli operai Slai Cobas su un volantino: “Siamo stufi di recarci ogni giorno al lavoro sapendo di non vivere in questo ambiente serenamente. Siamo stufi di avere paura e di piangere i nostri morti, i vostri morti. Siamo sicuri di volere questo? Essere testimoni impassibili di nefandezze? Riflettete: nessuno è immune dalla malattia e dall’infortunio. O no? E perdonate questo continuo porre domande”.
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