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Dieci anni di Uranio nei Balcani

Che l'uranio impoverito fosse estremamente nocivo si sapeva dai primi anni `90. Ma in Bosnia e Kosovo militari e civili sono stati egualmente mandati allo sbaraglio. E la ricerca langue
E le popolazioni? I militari cominciano ad essere istruiti sui rischi e controllati. Ma molte patologie letali crescono tra le popolazioni civili
16 luglio 2004
Tiziana Boari
Fonte: www.ilmanifesto.it
1.07.04


Venticinque militari deceduti dal 1998 ad oggi, più di 260 ammalati: sono le vittime italiane - tutti militari impiegati nelle missioni internazionali in zone di conflitto - della cosiddetta «sindrome dei Balcani», stando ai dati forniti da Domenico Leggiero dell'Osservatorio per la tutela del personale civile e militare. Per la prima volta è stata riconosciuta la causa di servizio all'elicotterista Stefano Melone, deceduto nel novembre 2001 per un tumore: mezzo milione di euro è la cifra che il ministero della difesa dovrà risarcire alla vedova, secondo una sentenza del tribunale di Roma. Seppure tardivamente, i militari hanno ricevuto, tra mille difficoltà e ostracismi, un minimo di istruzioni di cautele e comportamento.

La «Sindrome del Golfo»

La stessa cosa non è avvenuta e non avviene per le popolazioni civili colpite e per gli operatori internazionali impegnati nella ricostruzione postbellica.
Le conseguenze sanitarie dell'uso di armi all'uranio impoverito era emersa già negli anni `90, a seguito della prima Guerra del Golfo. Le varie patologie, spesso mortali, che colpirono i reduci statunitensi (leucemie, cancri alla tiroide e ai polmoni, malformazioni di neonati, aborti spontanei nelle donne) vengono riassunte sotto il termine di «sindrome del Golfo». In Italia la questione si riaffaccia con prepotenza nel 2000, quando l'Osservatorio per la tutela del personale civile e militare, per iniziativa del maresciallo del Cocer Domenico Leggiero, denuncia pubblicamente casi di decesso e malattia di soldati italiani che avevano prestato servizio nei Balcani.
Le conseguenze ambientali della guerra contro la Repubblica Federale Jugoslava e raccomandazioni in proposito erano già state oggetto di un rapporto nel giugno del 1999, redatto dal Centro ambientale regionale per l'Europa centrale ed orientale su incarico della Commissione europea. In questo rapporto già si poneva il problema degli «effetti a lungo termine di sostanze tossico cancerogene e di radiazioni». Si menzionava come dato acquisito che «i rapporti indicano che la Nato abbia utilizzato, durante il conflitto, esplosivi contenenti uranio esaurito» (pag.18). Dal rapporto emergeva inoltre la vasta presenza di metalli pesanti entrati nel ciclo bioalimentare e nel suolo.

Informati in ritardo

I militari italiani impegnati in Kosovo dal giugno 1999 tuttavia ricevettero la nota informativa che metteva in guardia dai pericoli relativi all'uranio impoverito soltanto nel novembre dello stesso anno. Nel frattempo si ammalarono militari italiani che non avevano mai prestato servizio in Kosovo ma in Bosnia (il caso di Salvatore Vacca, partito per la Bosnia nel 1998 con la brigata Sassari, ammalatosi al suo rientro e morto per leucemia nel settembre `99). Le patologie che emergono sono linfoma di Hodgkin, non-Hodgkin, leucemia. Nel luglio del 1999 erano intanto iniziate le interpellanze del governo italiano a quello americano circa la reale quantità di proiettili all'uranio e le zone in cui essi furono usati, ma i dati arrivarono soltanto nel gennaio 2001: 31.000 proiettili in Kosovo, 11.000 in Bosnia. I dati sulla Bosnia giunsero dopo quelli relativi al Kosovo, con implicazioni molto più gravi dato che al momento dei bombardamenti Nato del 1995 in Bosnia si trovavano numerosi operatori umanitari civili appartenenti a Ong e agenzie dell'Onu e il personale civile impegnato nella fase postbellica di ricostruzione non era mai stato informato del pericolo derivante dalle conseguenze ambientali di tali bombardamenti.
Dalla Federazione Jugoslava oggi giungono rapporti preoccupanti sullo stato di salute della popolazione, sempre più affetta da patologie quali leucemia, malformazione dei nascituri, neoplasie di vario tipo. Un rapporto datato 9 gennaio 2004, che denuncia la contaminazione radioattiva del suolo, basato su campioni di terriccio prelevati nel sudest della Serbia, è presentato in febbraio dal professor Pedrag Polic, direttore del dipartimento di chimica dell'Università di Belgrado, in un convegno a Como.

Bombardamenti in Serbia

Anche l'Unep si interessa della situazione ambientale postbellica nei Balcani: nell'ottobre 1999 produce un primo rapporto relativo ai danni ambientali prodotti dal bombardamento di siti industriali in Serbia, ma mancano i dati sui siti colpiti da uranio impoverito a causa della reticenza della Nato a fornire le relative mappe. I dati arrivano soltanto in seguito ad una lettera ufficiale firmata dal segretario generale dell'Onu Kofi Annan. La mappa dettagliata con i 112 siti colpiti in Serbia e Kosovo giunge soltanto dopo una seconda lettera a firma Annan del luglio del 2000.
Nel marzo del 2001 viene pubblicato il rapporto finale dell'Unep, redatto dalla task-force Balcani guidata dal finlandese Pekka Haavisto. Il rapporto conferma la pericolosità dell'uranio impoverito che si libera in forma di aerosol a temperature altissime, ma non gli attribuisce l'unica responsabilità di danni ambientali: il rapporto indica già la presenza di metalli pesanti, che possono avere effetti tossici sull'organismo umano, nella catena alimentare e nel suolo. L'attenzione è inoltre posta sulle particelle a bassa radioattività rilasciate dalla combustione di uranio impoverito, che possono causare danni a lungo termine.
Il governo italiano nel 2001 assume alcuni impegni relativi al monitoraggio e alla bonifica dei territori bombardati dalla Nato nei Balcani: il 21 marzo il parlamento approva la legge 84/2001 («Disposizioni per la partecipazione italiana alla stabilizzazione, alla ricostruzione e allo sviluppo di Paesi dell'area balcanica») che istituisce all'art.8 un fondo per il monitoraggio ambientale affidato al ministero dell'ambiente d'intesa con quello degli esteri. Dei risultati conseguiti grazie a questa legge, che autorizzava una spesa di 2,6 miliardi di lire nel 2001 e di 4 miliardi a decorrere dal 2002, non si ha ad oggi notizia.

La Commissione Mandelli

Il 22 dicembre 2000 il ministero della difesa istituisce una commissione, presieduta dal Prof. Franco Mandelli, con il compito di accertare tutti gli aspetti medico-scientifici dei casi emersi di patologie tumorali nel personale militare impiegato in Bosnia e Kosovo. La popolazione studiata dalla commissione è quella composta esclusivamente dai militari che dal dicembre 1995 al gennaio 2001 hanno compiuto almeno una missione in Bosnia e/o Kosovo. Per analizzare i dati e confrontare i risultati con i dati statistici presenti negli archivi sono stati presi a riferimento i dati più aggiornati disponibili, che però risalgono al periodo 1993-1997 (quindi non troppo aggiornati). La prima relazione viene pubblicata il 19 marzo 2001; la seconda relazione esce il 28 maggio 2001 e conferma un «eccesso, statisticamente significativo, di casi di Linfoma di Hodgkin». Rispetto alla prima, vengono inseriti nuovi casi registrati entro il 30 aprile 2001.
I dati con cui venivano confrontate le manifestazioni tumorali si avvalgono adesso di 12 registri tumorali italiani, in confronto con i 7 della prima relazione. Le conclusioni della seconda relazione inoltre ribadiscono la necessità di una conferma dei risultati ottenuti.
Falco Accame, presidente dell'Anavafaf, l'Associazione assistenza vittime arruolate nelle forze armate, chiede un'inchiesta anche sui civili. A seguito dei lavori della commissione Mandelli, il mondo delle Ong si allarma e invita i propri operatori attivi nei Balcani a sottoporsi ad un protocollo di analisi per accertare le proprie condizioni di salute ed avviare un monitoraggio sul personale umanitario circa le conseguenze derivanti dall'eventuale esposizione a uranio impoverito e metalli pesanti.

Non solo impoverito, anche irremovibile

L'ultima volta che proiettili all'uranio impoverito (Du, Depleted uranium) sono stati «ufficialmente» utilizzati, è stato nei bombardamenti aerei su Serbia e Kosovo del 1999: ben 31mila proiettili sparati da A10 e da elicotteri Apache. Gli stessi mezzi che nell'aprile del 2003 hanno colpito l'Iraq - dopo la guerra del 1991, battesimo del Du. Senza contare i raid Nato sulla Bosnia del 1994-1995. Sulla regione balcanica sarebbero finite almeno dieci tonnellate di uranio impoverito. Ma le cifre non ufficiali raccontano di Du anche nelle testate dei missili Tomahawak, e di una quantità molto maggiore finita sul Kosovo. Gli Stati uniti, dopo i raid del 2003, hanno fatto sapere che non hanno piani per rimuovere i frammenti di Du dispersi dalle bombe lanciate sull'Iraq nonostante le sollecitazioni Onu. Londra annuncia che «pur senza obblighi legali» sente però «moralmente un obbligo, come quando abbiamo coadiuvato la rimozione del Du dal Kosovo». Nella Federazione Serbia e Montenegro denunciano che nessuno li ha mai aiutati a decontaminare le centinaia di obiettivi civili colpiti solo 5 anni fa, e per 78 giorni, dai raid della Nato.
 

Nessun risultato di rilievo emerge dallo screening sommario, ma forse non si cerca nella direzione giusta: l'invito è quello di approfondire le analisi solo nel caso che qualche valore, in particolare la Ves, risultasse fortemente alterato.

Screening senza esito

Mancano gli strumenti di ricerca adeguati ad individuare la presenza di microparticelle di uranio impoverito e metalli pesanti nell'organismo. Carenza questa che viene solo parzialmente colmata dall'impegno dell'Università di Modena, nella persona della dottoressa Maria Antonietta Gatti, coordinatrice scientifica di un progetto sulle nanopatologie finanziato con un milione di euro dalla Commissione europea e gestito dall'Istituto nazionale di fisica della materia.
La Gatti avvia nel 2002 una ricerca settoriale sulle conseguenze degli interventi bellici sull'ambiente e l'organismo umano, anche alla luce dei casi denunciati dall'Osservatorio militare. A seguito della seconda relazione Mandelli, il ministero della difesa aveva stanziato due miliardi di lire al preside della facoltà di medicina dell'Università di Modena, l'ematologo Umberto Torelli, il cui rapporto riscontra che non esiste alcuna differenza biologica tra le patologie contratte in Italia o in altro luogo. Un dato reale quanto pleonastico, dato che le ricerche mirate condotte dalla Gatti rivelano invece una problematica di natura fisica. L'uso di munizioni all'uranio impoverito e l'impatto con il bersaglio provoca una combustione a temperature elevatissime, dai 3.000 ai 5.000 C°, che producono un pulviscolo di metalli pesanti e aerosol di uranio impoverito, nanogoccioline che galleggiano nell'aria, sono facilmente trasportabili a grandi distanze dai venti e soprattutto sono composte da nuovi materiali, nuove fusioni di molecole più piccole dei «Pm 10», le cosiddette «polveri sottili». Si tratta di particelle di dimensioni inferiori ai 10 micron, che possono entrare con estrema facilità nel circolo sanguigno dopo esser stati ingeriti come residui depositati sui vegetali che si mangiano.

Particelle nel sangue

Secondo la dottoressa Gatti, particelle di 0,1 micron, se respirate, raggiungono il sangue nell'arco di un minuto e dopo un'ora dall'inalazione si depositano nel fegato. La fisica di queste particelle è ancora tutta da studiare, ma alcune analisi hanno fatto rilevare la presenza di particelle di metalli pesanti, quali antimonio, tungsteno e cobalto, nell'organismo di militari e civili che avevano soggiornato nei Balcani durante e dopo il conflitto armato.
Al di là dei casi di patologia conclamata, al momento non sono valutabili in termini chiari e completi le conseguenze della presenza di tali particelle, non biodegradabili e di composizione chimica spesso non comune, nell'organismo umano. A parte un operatore umanitario che si è sottoposto volontariamente alle analisi speciali condotte dalla dottoressa Gatti a causa di una tiroidite e in cui sono state riscontrate tracce (4 micron) di antimonio, cobalto e argento, ad oggi non esiste un programma di screening né un protocollo per gli operatori umanitari che si recano in teatri di postconflitto potenzialmente a rischio.

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