Il sogno come strumento fondante del cambiamento

6 maggio 2013
Jacopo Fo

  
Oggi abbondano i visi incazzati di chi giustamente non sopporta l’infausto pasto della belva violenta che prevarica, umilia, affama, avvelena, uccide.
Come si può biasimare chi nutre questa rabbia tremenda contro l’ingiustizia? Cos’altro è possibile se non odio verso chi violenta i bambini, le donne, la terra?

Questi compagni hanno tutte le ragioni del mondo, tranne una: la rabbia è sterile, inutile.
La rabbia cementa l’ingiustizia perché è fatta della stessa materia: paura e odio.
La vendetta è inutile.
L’unica vendetta possibile è il cambiamento. Marcia Perugia Assisi del 16 maggio 2010

Perché un terzo degli italiani vota il partito osceno del bunga bunga?
Ancora!!!
Quale colla riesce ancora a far accettare a milioni di italiani la palese ingiustizia, il veleno quotidiano nelle strade e nel frigorifero, la ruberia più smaccata, la follia burocratica?
Accettano perché nel loro panorama mentale non vedono altro.
La mafia allena all’infelicità.
Il potere ti ripete continuamente che questo, per quanto schifoso è
 l’unico mondo possibile.
Per questo la gente alla fine vota ancora l’indecenza, compra ancora il fast food e l’amore annoiato.
“C’è solo questo.”
Ma la maggioranza di coloro che eroicamente si oppongono a questo scempio di vite vive di rabbia. Resta dentro questa rabbia.
 
E così facendo confermano che esiste solo questo. Che un altro mondo non è possibile.
 
Confermano la paura invece di innaffiare la speranza.
Io conosco bene questa rabbia.  La rispetto, perché è stata il mio pane quotidiano.
Quando avevo 17 anni mia madre tornò a casa coperta di sangue e di bruciature di sigarette.
 
Cosa fai quando sei un giovane comunista e vedi questo?
Io entrai nell’Armata Rossa. Per un anno intero
 pensai solo alla vendetta. Avevo in testa solo l’idea di uccidere chi aveva fattomale alla mia mamma.
Poi un giorno, forse una santa comunista, di quelle che vivono nel cielo dei martiri, mi mise una mano sulla testa. E mi resi conto che anche se ne avessi uccisi cento, mille, non avrei vendicato mia madre.
L’unica vendetta possibile è dimostrare a queste anime uccise dalla paura, questi mostri che sguazzano nella loro infelicità, che un altro mondo è possibile ma non per loro, perché hanno perso la sensibilità alla vita.
Cosa ci può essere di più duro che mostrare a un uomo che ha sprecato la sua unica possibilità di vivere?
L’unico nostro possedimento è essere sensibili alla vita.
 
E i torturatori uccidono ogni sensibilità praticando la tortura. Non gli resta niente!
Niente.

Per questo nel 1974, per fortuna prima di iniziare a sparare, ho lasciato la lotta armata. E lentamente, pensando fino a farmi ronzare la testa, sono riuscito a vedere che cosa volevo fare del mio odio.
E ho capito che innanzi tutto volevo costruire dei pezzi del mio sogno, vederlo muoversi. Ho cominciato impastando il cemento e riparando il tetto di una casa sgarrupata. E ho continuato nei successivi 30 anni a costruire un posto dove la gente potesse sperimentare qualche cosa di completamente diverso: mangiare, ballare, studiare, incontrarsi in modo differente.
E oggi stiamo costruendo una città verde dove sia possibile vivere rispettando la terra l’aria e se stessi.
La mia vendetta è che oggi qui vengono migliaia di persone, e a volte sono persone convinte che la loro vita sia l’unica tristezza possibile.

Un giorno abbiamo organizzato un seminario di 7 giorni per insegnare ai clown a far ridere i bambini negli ospedali.
C’era
 Patch Adams, il clown sciamano, Miloud, il clown che a Bucarest insegna la giocoleria ai bambini che vivono nei cunicoli sotterranei, Cataria, il maestro indiano dello yoga della risata che organizza incontri di migliaia di persone che ridono tutte insieme.
C’erano 300 persone sotto un gran tendone ad ascoltare schiere di comici. Abbiamo riso tanto. E non mi ricordo di aver mai pianto così tanto. Perché arrivavano questi clown dottori e ti raccontavano cosa vuol dire veder morire un bambino meraviglioso, un tempio di gentilezza. E c’erano 12 ragazzi di strada di Bucarest che uno per uno raccontarono la loro vita e avevano le braccia e le gambe disseminate di tagli che si erano fatti da soli per lenire la disperazione. E alla fine abbracciammo tutti, in un unico assembramento, una specie di testuggine abbracciante, Gabriella che aveva suo padre morente. E tutti piangemmo con lei abbracciati, e forse ognuno, lì, riuscì finalmente a piangere per il suo proprio intimo dolore. E io intravidi la possibilità di un mondo dove non si smette mai di cercare il dono del ridere con gli altri qualunque cosa succeda. Perché non è importante che muoriamo, è importante quando siamo vivi, che riusciamo a
 celebrare la vita. Non c’è niente di più importante del ridere e dell’amare.

Mentre alla fine tutti stavano partendo arriva una signora: parcheggia, scende dalla macchina, incrocia parecchia gente che sta partendo, tutti la salutano e le sorridono. Lei arriva alla reception incazzatissima e mi urla: “Ma checcazzo è questa messa in scena che tutti mi salutano e mi sorridono? Chi pensate di prendere per il culo?”
C’ha messo parecchie ore a capire che nessuno voleva prenderla in giro.
Quel giorno ho vendicato un grammo di dolore di mia madre.

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