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Forum: Lettere

15 marzo 2007

Roma - MIlano

Autore: Andrea Genzone

Parto da Roma verso le sette di sera con l’idea di viaggiare finché dura l’ultima luce e poi dormire qualche ora, per poter guidare nella notte, quando le strade son vuote e in giro s’incontra soltanto chi deve e chi vuole.
Devo risalire fino a Milano e assolutamente NIENTE AUTOSTRADA.
E non è così facile come dirlo, ché ci vuole la cartina e l’intuito. Io la cartina ce l’ho, ma tant’è che nel giro di 10 minuti, cercando di passare dalla Portuense all’Aurelia, mi ritrovo che la via è chiusa: davanti alle ruote sfuma l’asfalto e si fa sabbia. Spengo il motore ed è la prima sosta fuori programma del piccolo viaggio che ho davanti: scendo.
La spiaggia è un mosaico di detriti che si sono mischiati tra loro; che sebbene siano diversi e diversa sia la loro storia passata, uniti sono qualcosa di importante e riconoscibile, come una famiglia, come l’immondizia: legni secchi intrappolati tra le maglie logore di reti da pesca stracciate e aggrovigliate, vetri, frammenti di conchiglie tutt’altro che rare, lattine di Moretti mezzo sepolte... e in un angolo, quasi nascosta dietro al muretto di una casa, c’è una montagna di altri detriti che il mare, il vento, o il custode hanno sapientemente radunato. L’odore è forte, odore di mare rappreso; mare, comunque.
Mi arrampico e siedo sugli scogli neri; davanti a me il sole, scendendo, crea la striscia tremolante di colori caldi sull’acqua, come nel disegno che facevo sempre da bambino quando volevo far bella figura. Sopra la mia testa gli aerei decollano in fila indiana dall’aeroporto di Fiumicino, a distanza di due minuti l’uno dall’altro... Mi immagino il Riccetto e i suoi amici correre da qualche parte a combinarne qualcuna delle loro, mi immagino Pasolini respirare emozionato in questo posto e intrecciarne le storie con la mente.
Prima di ripartire consulto la cartina: devo passare per Focene, poi per Fregene e infine dovrei incrociare l’Aurelia e seguire per Civitavecchia. Ok.

La luce è finita da un po’ e sono sulla strada giusta. Si son fatte le nove e mezza e, se voglio rispettare i piani, devo fermarmi a dormire. Sento gli occhi un po’ pesanti e comunque oggi ho già guidato da Reggio Emilia a Roma e da Roma a qui quasi senza fermarmi. Percorro un tratto di strada buio circondato dai campi, senza centri abitati in vista. Mi fermo in una rientranza della strada, accanto ad un cartello “Riserva di caccia”; spengo le luci, chiudo le portiere dall’interno, nascondo la chiave nel sacchetto del pane e mi sistemo sul sedile dietro.
Questa macchina sarà pure spaziosa, ma i sedili sono troppo duri per dormire. Niente a che vedere con la gloriosa Lancia Y che mi ha sempre accompagnato in questo genere di viaggi, rivelandosi un perfetto quanto insospettabile camper.
Cerco una posizione tra le poche possibili, mi sistemo su un fianco, con un braccio sotto il peso del corpo e il giubbotto appallottolato che mi fa da cuscino. Mi sforzo di rilassarmi e spero che il sonno mi prenda, ma non sono tranquillo. A enorme distanza, alla destra della strada, un cane abbaia e un altro gli risponde, ancor più lontano, alla sinistra; tra di loro l’Aurelia, i campi bui. Sento un frusciare d’erba, mi alzo di scatto per guardare fuori ma non vedo nessuno; mi rimetto sdraiato e chiudo gli occhi. I minuti passano, il sonno si avvicina e si allontana. Due SUV passano a gran velocità uno dietro l’altro, con gran sibilare di turbina e facendo ondeggiare la macchina…
Se dormire non si può, allora si mangia: la dispensa offre una decina di Pringles, tre arance, del pane secco e il cioccolato con anacardi. Dormirò più avanti.
Finita la cena abbasso il finestrino, accendo una sigaretta e mi rimetto in strada, lento e regolare; buio davanti, dietro e attorno. Nel frattempo il caricatore dei CD lavora, e adesso è il turno di Ludovico Einaudi, “Una mattina”, album interamente per pianoforte. I brani, dai toni malinconici, mi cullano e mi trafiggono, rinfacciandomi che i sogni, quelli grossi, se ne sono andati e che posso pure vagare quanto mi pare, ma non è più lo stesso, non tornerà QUEL vagare.

Quand’ero bambino
Volavo in alto
E quando mi hanno atterrato
Ho graffiato l’asfalto

Non è
Un problema
Per me
Va bene così

L’asfalto è come il vento
Mi porterà lontano
L’asfalto è come il vento
Non temo la sua mano

I giorni sono pieni
Di parole vuote
I giorni sono treni
Veloci e senza ruote

Così
Chiedo scusa
Ma io
Me ne vado via

La polvere e il silenzio,
la solitudine assoluta…
qui non mi sento perso
in una vita muta

Da solo sull’asfalto
Mi batte forte il cuore
E ho voglia di tornare
Di venirti a cercare

Così
Chiedo scusa
Ma io
Voglio andare via

Non dirlo che io scappo
Io sono un’aquila e ti miro
Da qui posso sentirti
E legarti senza catene

Partire sarà come
Il lavoro del cacciatore
Tornerò con le provviste
Per sopravvivere alle ore

Intanto, in un alternarsi di buio interminabile e di luci di brevi città, la notte s’è fatta notte davvero; da uno starnuto mi vien fuori uno sbadiglio ed ho un sonno terribile. Ho appena attraversato Grosseto e lascio l’Aurelia per dirigermi verso Siena. Appena presa la direzione mi accosto in una piazzola sul viadotto, spengo, chiudo, nascondo, mi sistemo e buonanotte, sotto al sacco a pelo.

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