Nel voto dell'America la macchina del broglio
Nel finale di Assassinio sull'Orient Express, Poirot convoca nel vagone ristorante i dodici viaggiatori per svelare il colpevole del delitto Ratchett, il ricco americano pugnalato nella notte in un vagone del treno bloccato dalla neve. Il detective espone però due soluzioni. La prima è lineare: Ratchett sarebbe stato ucciso da un nemico personale. La seconda soluzione è più complessa: legati da un desiderio di vendetta - diretto o mediato - verso Ratchett, i dodici viaggiatori sarebbero parte di uno stesso complotto. Mentre espone la seconda soluzione, Poirot ammonisce i suoi interlocutori di tener ben fissa nella mente la prima, come alludendo al fatto che sarà quella a venir ratificata come ufficiale. La stessa biforcazione è applicabile alle elezioni americane 2004. Con una differenza: nel caso del nuovo mandato repubblicano, la seconda spiegazione - anche se decisiva - non è alternativa alla prima, ma vi si sovrappone e vi si intreccia.
Fine dei dubbi
Quando, alle 11 mattutine del 3 novembre, John Kerry ha silenziato ogni dubbio sul voto con la dichiarazione di resa, l'opinione pubblica globale ha silenziato ogni considerazione tecnico-logistica sulle modalità del voto. Da quel momento, la vasta trama delle categorie condivise del «dibattito» si è ramificata fino a oscurarlo, con larga prevalenza dell'argomento legato alla macchina del risorgente fondamentalismo cristiano sud-occidentale. Su tutto, in particolare, si è stagliata la sagoma dell'accalappia-anime Karl Rove, il consigliere di Bush jr. e lettore maniaco di Machiavelli. Sia chiaro, è un argomento di peso, perché Rove ha saputo plasmare e congiungere con tenacia tutti i luoghi e i riti di una costellazione simil-trascendente che fonde manicheismo semplificatorio e pornomarketing del divino, macchiettistica isteria apocalittica e cerimonialità disneylandiana. Basti pensare agli spazi monumentali come le 700 pala-cattedrali (o megachurches) tipo la Chrystal Cathedral di Garden Grove, con le sue immani pareti vitree e i suoi organi-megaliti o ai tanti villages con poche anime stipate in minute chiese biancolignee (la Canaan Baptist Church nella Crawford presidenziale); o a cerimonie come le crocifissioni di Orlando o le messe-drive in sui prati di Daytona.
Ma questo nuovo popolo delle indulgenze ha portato solo 4 dei 9 milioni e mezzo di nuovi voti repubblicani rispetto al 2000 (contro 5 e mezzo democratici, per un totale di 14 e mezzo). Dobbiamo credere che i rimanenti siano tutti dovuti agli altri aspetti sviscerati dall'accanimento sociologico del dopo-voto, dal dogma della Sicurezza a quello della Paura, dall'opacità del candidato democratico al suo eccessivo antagonismo o, ancora, al suo intellettualismo frigido da costa puritana? O non bisognerà invece introdurre qui la seconda spiegazione, quella liquidata dal 3 novembre?
E' una spiegazione che parte da lontano: dall'estate del `99, quando Katherine Harris, segretario di stato della Florida e copresidente della campagna repubblicana, incarica la Database Technologies (per 4 milioni di dollari) di inibire il voto dei neri (al 90% democratici) togliendo dagli elenchi non solo i pregiudicati ma anche i loro «quasi» omonimi. Nonostante quest'ablazione di 180.000 voti, i repubblicani dovranno aspettare che la Corte suprema federale - con membri «amici» dei Bush - neghi il riconteggio, favorevole a Gore.
Per prevenire, nel 2004, il ripetersi del marasma, l'amministrazione Bush avvia nell'ottobre 2002 un'operazione sistemica, approvando una legge (Help America Vote Act o Hava) che stanzia non più 4 milioni, ma 4 miliardi di dollari per sostituire le obsolete macchine a levette e schede perforate con le più efficienti macchine di voto a sistema elettronico touch screen («tocca schermo»), in cui la scelta dell'elettore viene registrata nella black box di un software specificamente adibito. Le imprese prescelte per la «rivoluzione» sono tre.
La Election Systems and Software (Es & S) viene fondata nel 1980 a Omaha (Nebraska) dai fratelli Bob e Todd Urosevich, ma coi capitali di un'altra famiglia, gli Ahmanson, miliardari sostenitori dei repubblicani. Howard Ahmanson, in particolare, è il finanziatore del Chalcedon Institute, associazione di fondamentalisti cristiani che predica creazionismo spinto e lapidazione per gli omosessuali. Nel 1996 il presidente e poi amministratore delegato dell'impresa, Chuck Hagel, si candida al senato del Nebraska e capovolge i sondaggi diventando il primo senatore repubblicano dello stato in 24 anni con l'83% dei voti. Dopo questo trionfo del conflitto d'interessi, le macchine Es & S cominciano a inanellare insuccessi: nel `98 si inceppano nelle elezioni hawaiiane e non conteggiano 41.000 voti a Dallas; nel 2002 avvolgono nel giallo-noir la contea di Baldwin (Alabama), dove il democratico Don Siegelman vince le elezioni la sera e si risveglia la mattina con 6300 voti in meno e il repubblicano Bob Riley eletto al suo posto. Siegelman chiederà inutilmente il riconteggio; e Mark Kelley - il funzionario Es & S interrogato - risponderà testualmente: «Qualcosa è successo ma non sono abbastanza intelligente per dire cosa».
40.000 files non protetti
Uno dei fratelli Urosevich, Bob, diventa nel `99 presidente della Diebold, antica società con sede a North Canton (Ohio), controllata a sua volta dai repubblicani. La giornalista d'inchiesta Bev Harris racconta nei dettagli ogni aspetto della società. Seziona il programma Gems, da lei conosciuto penetrando nel sito della società, dove ha trovato, tra l'altro, 40.000 files non protetti con il conteggio dei voti californiani del 2002 effettuato diverse ore prima della chiusura dei seggi. Il Gems, in sostanza, è un programma che registra voti poi copiati in un sottostante database Access, invisibile a scrutatori e controllori e facilmente manipolabile: il tutto in un sistema che prevede la diffusione non dei dati originari, ma proprio di quelli copiati. E' cioè un programma-maschera che nasconde un volto dalla fisionomia infinitamente rimodellabile. Come se pile di schede coi voti venissero stipate in una stanza 1 e poi si facessero delle copie delle stesse stipandole in una stanza 2 con la porta aperta (esposta a ogni rischio di manipolazione), decidendo di usare le seconde per il conteggio. Solo la Diebold - resta inteso - ha la chiave per la porta della seconda stanza.
Dall'altro lato la Harris elenca tutti gli «incidenti» elettorali innescati da tale programma, come quello nella contea di Comal (Texas) nel 2002, dove tre candidati repubblicani vengono eletti in tre collegi con 18.181 voti a testa; o come quello in Georgia (novembre 2003) col democratico Max Cleland dato in vantaggio tra i 2 e i 5 punti e sconfitto di 7 dal repubblicano Saxby Chamblis. Calcomania dell'anno prima, quando nelle elezioni di medio termine (le stesse che avevano visto trionfare Jeb Bush in Florida contro Mc Bride, sempre tramite Diebold) il favoritissimo democratico Roy Barnes era stato schiantato dal repubblicano Sonny Perdue. Critiche analoghe sono state formulate anche al software della terza società oligopolista: la Sequoia Voting Systems, con sede a Oakland (California). Si tratta infatti di un software accessibile, non protetto e comprensivo di sorgenti, disposto su un comune Ftp gestito da Jaguar Computer Systems e poi chiuso dalla stessa Jaguar dopo la diffusione pubblica della «security gaffe».
Tra il giorno di approvazione dell'Hava e l'ultimo giorno prima delle elezioni questa Trimurti informatica è stata sottoposta a ogni genere di critica. Critiche radicali al software e al sistema Serve (Electronic Registration and Voting Experiment, approvato dalla difesa e impostato su Microsoft) sono arrivate dall'ambito accademico, attraverso studi della Johns Hopkins, del Caltech (Mit), della Rice e della Stanford University. Lo stesso vale per l'ambito mediatico, con centinaia di affondi sia in rete che sui grandi giornali: il 23 gennaio di quest'anno, per esempio, John Schwarz ricordava sul New York Times come «il nuovo sistema da 23 milioni di dollari» - il Serve, appunto - fosse stato ritenuto «intrinsecamente insicuro» dalla commissione informatica consultata dal governo.
E lo stesso vale per l'ambito strettamente politico, con denunce come quella del congressista democratico del New Jersey Rush Holt, tra i primi a chiedere un emendamento della Hava che implicasse la ricevuta cartacea del voto touch screen, indispensabile per il riconteggio.
La conflittualità più alta tra i media e l'opinione pubblica e questa insinuante e silente pervasività di un voto elettronico manipolabile si è avuta con la Diebold. Origine di tutto è l'identità del suo presidente, Walden O'Dell. Finanziatore dei repubblicani, O'Dell agisce con progressione implacabile: nel luglio 2003 riceve a cena a casa propria il vice-presiente Dick Cheney, raccogliendo in una sola serata 500.000 dollari; alla metà di agosto dello stesso anno invia una lettera ai 100 finanziatori repubblicani del club «Pioneers and Rangers» con un'avvertenza che non passa inosservata («ho il compito di aiutare il presidente Bush a prendere i voti elettorali dell'Ohio il prossimo anno»); e nel febbraio 2004 fa stanziare al governatore dell'Ohio Kenneth Blackwell 113 milioni di dollari per l'acquisto di macchine Diebold. Anche Bush, tra l'altro, visita gli uffici della compagnia con W.R. Timken, consigliere d'amministrazione della stessa e a sua volta membro dei «Pioneers and Rangers».
Software manovrabile
Non deve sorprendere quindi che, incapsulata com'è in questo macroconflitto d'interessi, la società sia al centro di un twister di attacchi. Per garantire infatti ai propri committenti il risultato richiesto, il software deve essere o programmabile funzionalmente agli scopi elettorali per cui è pensato, o manovrabile dall'esterno. Ma è proprio tale configurazione ad aver azionato nell'ordine: quattro inchieste indipendenti contro la Diebold a partire dal novembre 2002; la scoperta di 15.000 e-mail della società finite su Internet (suffraganti l'irreggimentazione cieca dei dipendenti, costretti a nascondere i «difetti» delle macchine) e la successiva intimazione dell'azienda a chiudere i siti di propagazione della «falla»; la conseguente campagna di disobbedienza di due organizzazioni studentesche quali la Why War? e la Swarthmore Coalition (ottobre 2003), che si estende a 50 università americane; e lo scontro duro con siti di controinformazione come blackboxvoting.org della citata Bev Harris (che viene chiuso) o come Indymedia, la cui sede londinese viene perquisita all'Fbi il 7 ottobre scorso.
Acme è il redde rationem californiano: dopo le riserve sull'elezione di Schwarzenegger a governatore, si arriva a provvedimenti decisivi: la contea di Alameda sospende le macchine Diebold per le primarie di quest'anno, mentre alla circolare tartufesca del segretario di stato Kevin Shelley (ingiungente l'obbligo di ricevuta cartacea entro il gennaio 2006) fa eco la richiesta allo stesso Shelley - firmata dal democratico Ross Perata e dal repubblicano Robert Johnson, vertici della commissione elettorale del Senato - di decertificare da subito tutti i sistemi elettronici che ne sono privi. Ma la California, col Nevada, è un'eccezione. Il 24 ottobre di quest'anno - sull'orlo del voto - il Palm Beach Post riferisce per esempio di come la richiesta del deputato del Congresso Robert Wexler per la Florida - bloccare proprio le macchine touch screen senza ricevuta cartacea - venga rigettata da un giudice federale. Sarà una decisione risolutiva.
Perché Kerry si è arreso così presto?
Calata la mannaia dell'insindacabilità del suffragio popolare, il tortuoso percorso delle riserve sul voto elettronico è stato decapitato per sempre. Gli osservatori istituzionali sembrano fugare ogni ombra. Doug Chapin - direttore dell'Election Reform Information Project, un progetto indipendente finanziato da The Pew Charitable Trusts - ha l'impressione che «l'e-voting non sia stato né meglio né peggio dei molti altri problemi che abbiamo dovuto affrontare»; mentre gli osservatori della Verified Voting Foundation riconducono all'e-voting solo il 6% dei 27.500 incidenti elettorali complessivi registrati (per inciso, il dato totale è comunque allarmante, mentre per le macchine il problema, come si è visto, è più qualitativo che quantitativo). Eppure, a ben guardare, non sono mancate e non mancano dissonanze nella musica di fondo. Il 3 novembre, ad esempio, un lancio Reuters segnala che «in tutti gli Stati uniti si sono riscontrati problemi col voto elettronico touch screen» e ricorda gli ammonimenti autorevoli di alcuni esperti circa la possibilità che «le macchine usate da un terzo della popolazione fossero programmate per sbagliare»; un lancio Ap parla di gravi problemi a New Orleans, dove il numero insufficiente di macchine ha costretto gli scrutatori ad allontanare gli elettori chiedendo loro di tornare; mentre Thomas Crampton documenta sull'Herald Tribune come osservatori internazionali abbiano registrato nel sud della Florida la violazione delle «procedura standard internazionali di voto».
Quanto ai tecnici che avevano parlato prima delle elezioni, alcuni di loro parlano anche dopo, e non sembrano aver cambiato idea. Aviel Rubin - professore di informatica alla John Hopkins e presidente di seggio nel Maryland - pubblica on-line alcune considerazioni consuntive: «Le macchine per il voto esposte a vulnerabilità possono continuare a funzionare in maniera apparentemente normale.
Possibili errori e brogli
E' possibile che nessuno questa volta ne abbia sfruttato le vulnerabilità, ma è possibile anche che ci siano stato brogli o errori gravi e che questi non siano stati scoperti. Il voto elettronico viene giudicato in base ai fallimenti visibili, ma quelli invisibili sono i più gravi». E Ted Selker - professore di informatica al Mit e membro dl Caltech-Mit Voting Technology Project - rimarca ancora «timori» e «incognite» su «sicurezza» e «affidabilità»; elogia infatti le potenzialità di maggiore correttezza e efficienza dell'e-voting, ma racconta di aver visto «degli scrutatori cancellare un conteggio dei voti per farlo combaciare col calcolo informatico».
E' allucinazione pensare di ricondurre simili piaghe epidermiche a una malattia più generale dell'organismo? Vedere cioè, in queste disfunzioni, qualcosa di più che un assestamento fisiologico di un'innovazione migliorativa, e arrivare a formulare ipotesi diverse sui motivi che hanno portato l'exit-poll di John Zogby a seggi chiusi (con Kerry a 311 grandi elettori e Bush a 213) a un rovesciamento così veloce e brutale? In fondo, anche i casi Barnes-Perdue e Cleland-Chamblis in Georgia ( tra i tanti) hanno seguìto una dinamica simile.
Ma la seconda spiegazione - per stare sempre a Poirot - può permettersi di prescindere dalla valutazione globale del voto, e concentrarsi solo sull'Ohio di O'Dell e della Diebold. Se infatti - come ha dimostrato in modo ineccepibile Fabrizio Tonello sul manifesto del 6 novembre - è questo lo Stato dirimente del 2004 (come la Florida nel 2000), basterà scontornarlo dal resto e isolarlo nella sua ambiguità specifica.
Secondo alcuni osservatori, il voto in Ohio sarebbe pesantemente contestabile anche prescindendo da eventuali alterazioni del voto informatico. Qualche giorno prima delle elezioni (il 27 ottobre) un avvocato di prestigio (Bob Fitrakis) e un editore del sito web dell'Ohio FreePress.org (Harvery Wassermann) avevano assemblato 12 modalità di violazione delle procedure di voto. E' un elenco impressionante: si va dalle pressioni annunciate (New York Times del 23 ottobre) di avvocati e controllori repubblicani nei seggi per allontanare gli elettori (specie nei distretti a prevalenza democratica) alla negazione del voto a studenti iscritti in atenei stranieri; dalla contestazione degli indirizzi dei votanti alla falsa obbligatorietà del permesso del giudice per gli ex detenuti (in ben 20 Contee); dal cambiamento di status elettorale (da attivi a inattivi) per 150.000 elettori di Cincinnati (non votanti nelle due ultime elezioni federali) all'invalidamento delle registrazioni di voto con application di carta superiori alle 80 libbre di peso (cavillo degli anni `30).
Blackwell come Harris
Il 4 novembre, si registrano due dichiarazioni importanti: la senatrice Teresa Fedor - che un mese prima del voto ne aveva chiesto le dimissioni - addita nel governatore Blackwell il responsabile di tutte queste irregolarità e lo paragona alla Katherine Harris della Florida 2000; mentre il vicepresidente Moss di Hbcu Connect (istituzione per i rapporti tra i college neri e le altre università) descrive file di tre ore nei quartieri afroamericani per carenze organizzative e ne deduce un disincentivo al voto in larga misura democratico. Ma c'è chi va oltre. Greg Palast - il famoso analista della Florida 2000 - si spinge il 5 novembre, a sostenere che l'Ohio, in realtà, è di Kerry. Motivo: i voti scartati per «spoilage» - schede non correttamente pinzate - e i «provisional ballots», voti-placebo non sempre contati. Al momento della resa democratica, Bush ha 136.483 voti più di Kerry, che si arrende perché mancano solo 155.000 voti da scrutinare e l'esito sembra deciso. Secondo Palast, i voti restanti sono molti di più, e cioè - considerando la media degli «spoiled» delle ultime elezioni in Ohio, ammontante al 2% circa - 265.000 (155.000+ 110.00). In effetti una tesi simile - anche se con voti «spoiled» meno massicci - è sostenuta lo stesso giorno dal Cleveland Plain Dealer, che parla di 247.672 voti non contati.
Il punto però,ancora una volta, non è solo quantitativo, perché - sostiene Palast rifacendosi alla Florida - è statisticamente documentato che lo «spoilage» ha sempre colpito in tutto il paese per lo più afroamericani e minoranze etniche a maggioranza democratica.
La centralità, in ogni caso, spetta ancora alla Diebold e a O'Dell. Fitrakis e Wassermann - che avevano trattato l'argomento in fase pre-voto come un primus inter pares - qui lo eleggono a fattore dominante, notando come il numero di macchine di voto assolutamente insufficiente nelle aree afroamericane abbia portato fino a otto ore di fila e a numerose rinunce, e ricordando la grave anomalia della mancanza delle ricevute di voto in molte Contee, battaglia vinta da Blackwell dopo lunga contesa (in altre Contee, l'obbligo della certificazione è stato ottenuto «a partire dal 2006»). Sulla mancanza di rilascio della scheda cartacea insiste anche Susan Truitt di Citizen Alliance for Secure Elections, che parlando con uno scrutatore verifica la distanza tra exit poll e risultati (inverificabili) e soprattutto apprende - dato patafisico - che su diverse macchine il voto postato è pari allo «zero».
Ancora più patafisico è il dato riferito il 6 novembre dal New York Times (di nuovo John Schwarz) e dalla Cnn, dato riguardante il distretto di Gahanna, Contea di Franklin, la stessa colpita - più delle altre - dal rapporto Fitrakis-Wassermann. A Gahanna, l'esito dà infatti Bush vincitore su Kerry per 4258 a 260: ma, piccolo dettaglio, gli iscritti al voto sono 638. Al silenzio degli ufficiali elettorali interrogati dall'Ap (anche sull'eventuale estensione dell'«inconveniente» ad altri distretti e Contee), ovvia il direttore dell'Ufficio elettorale della Contea di Franklin, Matthew Damschroder, che parla di un errore nel processo di registrazione del voto di una delle tre macchine del distretto e afferma che l'errore stesso sarebbe stato «comunque» scoperto al momento del conteggio ufficiale «verso la metà di novembre».
Azioni in salita
«L'alba del giorno dopo» vede le azioni della Diebold salire nel Nasdaq a + 3,4%, con i giornali economici plaudenti all'efficienza esemplare delle 46.000 macchinette dell'azienda, incomparabilmente più affidabili delle 30.000 delle aziende rivali, afflitte da «malfunzionamenti» e non di rado sottoposte a sequestro. Come a dire: il lavoro ben svolto (il «lavoro» annunciato da O'Dell a Ferragosto del 2003) ha definitamene trasformato l'oligopolio in un monopolio. Balzi simili si sono avuti, a Wall Street, solo per Big Pharma (Abbott, Allergan, Bristol-Myers, Eli-Lilly, Johnson & Johnson e soprattutto quella Pfizer cui è stato subito concesso il favore di eliminare dalla rete la vendita dei Viagra concorrenti): e cioè per tutte quelle corporations che Kerry aveva promesso di colpire - a proposito dell'intercambiabilità dei candidati - con la riduzione dei prezzi dei farmaci e con l'importazione dei generici a basso costo dal Canada.
Ed eccoci proprio a John Kerry e alla domanda sulla sua resa precoce, con l'Ohio ancora scoperchiato e a voto palesemente irregolare. Ci sono tre ragioni - tutte ipotetiche - per cercare di spiegarla. La prima è la più nobile: Kerry ha capito di essere stato sconfitto da un'alterazione di voto così abnorme (a differenza di quella «perimetrata» nella Florida del 2000) da rendere impraticabile qualsiasi contenzioso se non al prezzo di un conflitto civile prolungato, doloroso e forse anche inutile. Un senso di «responsabilità» gli avrebbe suggerito un elegante ricorso al tasto off. La seconda è la meno nobile: i software delle macchine Diebold contengono sistemi operativi Microsoft (Windows CE, Windows `95/'98/2000), cioè di uno degli sponsor influenti - coi suoi 260.000 dollari - della campagna democratica. Una contestazione del voto informatico avrebbe comportato, probabilmente, la sconfessione di tale finanziamento. La terza ipotesi è a mezza via. Kerry e i suoi hanno colto la gravità della frode ma nello stesso tempo la difficoltà-impossibilità a dimostrarla, criptata com'è (grazie anche alle tante Contee senza ricevuta cartacea del voto, e ammesso e non concesso che le varie Corti avrebbero concesso i riconteggi) nelle vastità del suo non-spazio informatico; nei minuscoli e infiniti black holes - più che nelle black boxes - dove molto scompare e tutto si trasforma.
Comunque sia, è degli ultimi giorni una notizia in contromano, data con risalto da Le Monde del 9 novembre per la firma di Corine Lesnes. Contemporaneamente a un servizio-denuncia della Tv americana Msnbc sulle alterazioni elettorali, tre democratici della Camera - John Conyers, Jerrold Nadler e il citato Robert Wexler - hanno scritto una lettera al General Accounting Office (organo di valutazione parlamentare) per far avviare un'inchiesta ufficiale incentrata non solo sull'Ohio, ma anche sulla Florida, l'altro stato che ha visto i sondaggi favorevoli ai democratici totalmente ribaltati nelle Contee a voto elettronico senza ricevuta: vedi la Contea di Baker (69% democratico rovesciato in un 77% repubblicano) o quella di Calhoun (82% democratico rovesciato in un 62% repubblicano), per tacere della Contea di Broward, dove una macchina sopprimeva i voti anziché addizionarli.
Posta in gioco altissima
Certo, come si è affrettato a puntualizzare Conyers proprio a Msnbc, non è nemmeno pensabile una nuova elezione. Ma la posta in gioco è comunque altissima.
Tra le spiegazioni del 2 novembre, la seconda - quella legata all'alterazione silente del voto - resterà quasi certamente in uno strato (o stato, in senso biochimico) parallelo della materia e della Storia. Se emergesse con forza, però, assisteremmo almeno al ridimensionamento della «strategia vincente» del Comandante, della sociologia strumentale sulla destra religiosa maggioritaria, delle considerazioni psicosociali sulla paura e sul consenso all'autoritarismo machista: tutti elementi che invece, ora, rischiano di inverarsi, nutriti da migliaia di ruminazioni, secondo un processo analogo a quello che è riuscito a enfiare il freak di un estremismo islamico minoritario in un'idra polimorfa zuppa di veleni antioccidentali. Non solo: assisteremmo anche alla contestazione di figure come O'Dell o come Blackwell - che invece raccoglierà a sua volta i frutti del baratto diventando il nuovo governatore dell'Ohio - a una discussione vera sulla crisi di un corpus istituzionale ormai da rifondare, a una gestione della guerra in Iraq che non inquadri come inevitabili massacri come quello di Falluja.
Invece, l'imporsi acritico della «prima» spiegazione schermerebbe - come il Gems coll'Access - la vera vittima dell'omicidio, che non sono i democratici ma la democrazia americana nella sua accezione migliore; e cripterebbe per sempre ai più la vera natura di questa oligarchia-predator, che vede proprio nella plasmabilità degli oggetti di cui si serve la struttura profonda del proprio operare: la manovrabilità occulta del voto, in questa prospettiva, è perfettamente contigua a quella geopolitica che trasforma gli alleati in «stati canaglia» (e viceversa) nell'ottica delle microguerre volta a volta funzionali.
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