“Le parole della politica”, ciclo di incontri organizzato a Roma dall’editore Laterza e da Repubblica

Il rapporto tra “vita e tecnica” nella lezione magistrale di Stefano Rodotà

Progresso tecnologico, invadenza della biopolitica e nuovi rischi di “human divide” esigono la costruzione sempre più convinta di percorsi di libertà e uguaglianza. E’ l’unica strada per riconciliare tecnica e vita nelle nostre relazioni quotidiane
21 luglio 2010

Come sempre le parole di Stefano Rodotà suonano rigorose, limpide e tonificanti.  La lezione magistrale del giurista si tiene nel bel cortile del Palazzo della Provincia di Roma, in via IV Novembre, ed è introdotta dal giornalista di Repubblica Vladimiro Polchi. Il tema è "vita e tecnica”.                                       

"Biopolitica" e alleanza della tecnica con la vita

Il professor Rodotà prende le mosse dalla volontà espressa dal Ministro dell’Interno Roberto Maroni di impiegare in futuro lo strumento del “body scanner” - introdotto di recente per controllare i passeggeri dei voli aerei - anche per garantire la sicurezza dei treni italiani. Tornerà poi a soffermarsi su questa ipotesi. Via via cita altri casi in cui la politica si occupa della parte più intima della vita delle persone e del loro corpo: le intercettazioni delle comunicazioni, le tecniche di fecondazione, il testamento biologico. Tutti casi in cui il potere politico si esercita come potere diretto sulla vita (biopolitica).

15 luglio 2010: lezione di Rodotà a Roma, Palazzo Valentini

La lezione è intensa e costruita come racconto di esperienze e riflessioni in compagnia di antropologi come Marvin Harris e filosofi come Heidegger, e soprattutto Michel Foucault e Gunther Anders.  Sono riflessioni destinate a un pubblico non lontano da alcuni temi, per interessi e sensibilità, ma insieme curioso e disposto ad avventurarsi al di là di parole d’ordine e concetti rassicuranti.

Le parole tratte dagli scritti dell’antropologo descrivono minutamente antiche tecniche di contraccezione chimiche e meccaniche. La tecnica ha messo sempre in discussione l’ordine naturale. Oggi mette in discussione, per restare in tema di procreazione e pensando ai diversi momenti in cui può essere impiantato un embrione, l’ordine delle generazioni. Però è da sempre alleata della vita contro la natura, contro il dolore e i limiti umani.

Secondo Rodotà non bisogna guardare a questi due poli nel loro rapporto diretto - favorendo così processi di deresponsabilizzazione - ma prestare attenzione a chi media e legittima il rapporto tra vita e tecnica. L’uomo comincia a servirsi della tecnica come di uno strumento, ma poi deve fare i conti con la capacità di intravedere e realizzare fini sempre nuovi, fini che possono nascere nel mondo stesso della tecnica, in un processo che può farle conquistare un dominio incontrollabile (Heidegger).

In tante situazioni della vita la biologia non è più un destino. Prendono corpo nuovi diritti della persona come quello di autoderminarsi rispetto alla procreazione, in radicale discontinuità rispetto alla condizione precedente (del caso e della necessità). Ma ne è nata una lotta tra poteri, l’esaltazione, anzi, di nuovi poteri che aspirano a prendere possesso del corpo.

La vita sequestrata

La tecnica può prospettare la vita come una prigione, sequestrare la vita, che diventa campo di battaglia.

Eluana Englaro e Piergiorgio Welby dipendevano dalle tecnologie della sopravvivenza, nel caso di Welby dalla macchina che gli consentiva di respirare. Alcune decisioni sul fine vita non sarebbero  necessarie se non fossero intervenute nuove tecnologie. Di fronte a ogni bivio, però, può  riemergere la primitiva aspirazione - piuttosto che a riaccostarsi alla natura - a impadronirsi dei corpi in una sorta di iconografia medioevale. Ne sono una traccia la presenza di lumini e di pezzi di pane davanti alla clinica dove si trovava Eluana. Un anno dopo il Presidente del Consiglio scriveva una lettera resa pubblica in cui dichiarava il suo dolore per non aver potuto evitare la morte di Eluana.

Il potere politico, il potere religioso, medico e tecnologico vorrebbero controllare lo svolgimento della vita. Foucault parla di un esercizio pubblico del potere che assoggetta la vita, costruisce i modi dell'esistenza e gli stessi suoi desideri. Per Rodotà ne è una traccia l’orrendo disegno di legge governativo sul testamento biologico, che nega che una persona capace di intendere e di volere possa avere un pensiero e una volontà rispetto al proprio destino in caso di grandi sofferenze e coma irreversibile.

La riduzione del corpo a oggetto controllabile, e addirittura la sua predisposizione al controllo tramite braccialetti elettronici o microchip, possono innescare nuovi pericolosi meccanismi e  discriminazioni. Anziani e disabili, per pagare premi di assicurazione più bassi, potrebbero essere indotti ad accettare queste forme di controllo (come accade quando si applica alle auto un antifurto satellitare). E se davvero si decidesse di utilizzare “body scanner” per controllare i passeggeri dei treni non sarebbe certo possibile farlo per quelli regionali, frequentati da migliaia di pendolari o utilizzati per pochi minuti. Quindi la sicurezza verrebbe assicurata solo ai passeggeri più ricchi? E su quali basi verrebbero prese decisioni pubbliche su questa materia?

Il rischio di una profonda diseguaglianza

In un libro del 1956 il filosofo polacco Gunther Anders scriveva che l’uomo ricorrendo alla tecnica sposta i propri confini, si allontana da se stesso e passa in una sfera non naturale, nel regno dell’ibrido e dell’artificiale. Non si può certo negarlo.

Noi possiamo provare a chiederci qual è la dimensione della vita (forse non qual è la vita). Sappiamo di essere "biologia", ma sappiamo che la tecnica ripara, integra e migliora le nostre prestazioni (con protesi analoghe a “telecamere” per i non vedenti o arti di titanio come quelli dell’atleta sudafricano Pistorius). Un non vedente può così avvicinare e allontanare le immagini come se disponesse di uno zoom e Pistorius ottenere performance straordinarie nella corsa. Del resto, per chi ha parti artificiali nel corpo (viti, valvole o tessuti), la condizione originaria non sarebbe più accettabile. E’ così anche per il protagonista del libro “Neuromante”, di William Gibson, che vive nel terrore di ripiombare nell’originaria prigione del corpo.

Se siamo biologia, siamo però anche “biografia”. Per gli stessi genetisti non siamo legati al destino genetico, ma a quello che verrà costruito nell’interazione con le proteine, con il cibo, l’ambiente e  l’inquinamento. La propria vita si vive, si inventa. Anche in luoghi diversi da quelli fisici tradizionali come la rete internet, in cui il rapporto con la propria identità può essere controverso e occorre fare più attenzione alle tracce lasciate e alle possibili alterazioni.

La tecnica può addirittura migliorare le nostre prestazioni intellettuali. Nel settembre del 2009 la rivista “Nature” dava notizia di un’interessante ricerca sulla memoria. E' evidentemente cruciale la riflessione su chi avrebbe il diritto di decidere sull'applicazione dei risultati: il divario digitale (digital divide) rischierebbe di diventare una questione modesta rispetto al rischio di “human divide” (la costruzione di una società castale in cui tutto potrebbe essere deciso in base alla ricchezza personale).

La passione della libertà

Secondo Rodotà si deve reagire ma ragionevolmente. Non si può tornare alla natura rigettando la tecnica o rassegnarsi al suo dominio. E c’è una differenza non da poco tra la possibilità dell'individuo di scegliere gli strumenti offerti dalla tecnica e il pericolo di un’imposizione.

Le idee guida sono semplici. Libertà, dignità e uguaglianza.

Non si tratta certo di una novità nella storia delle nostre società democratiche. Ma sono diritti da rimettere al centro delle nostre valutazioni ogniqualvolta si prospettano situazioni nuove e che  devono intervenire come misura della tecnica.

 Sulla base della libertà e della dignità dell'individuo, della loro centralità, è possibile costruire percorsi per riconciliare tra loro tecnica e vita. Occorre farlo per il bene e la qualità delle nostre relazioni quotidiane. E occorre farlo guidati dall’idea del bene comune che vuole l’abolizione di privilegi e ingiustizie.

Le conclusioni di Rodotà, brevi e determinate, sembrano un incoraggiamento diretto a chi è già al lavoro. E il problema di governare il rapporto tra tecnica e vita, sapendo che i diritti fondamentali e la dignità della persona sono al primo posto, ci fa meno paura.  

Del resto siamo abituati a pensare a Stefano Rodotà come a un intellettuale sempre presente, con competenza e sensibilità, ad accompagnare i nostri dubbi e le nostre riflessioni in momenti difficili per la coscienza e per la vita pubblica  (momenti in cui vediamo spesso figure  anche istituzionali  allontanarsi per dare conto ad altri interlocutori e ad altre esigenze). Lo sentiamo al nostro fianco, sempre rispettoso di tutti e interessato alla verità storica e alla chiarezza, mentre ci offre la sua testimonianza e la sua semplicemente magnifica passione civile.

 

Note: Le vicende drammatiche di Eluana Englaro, in stato neuro-vegetativo per 17 anni, e di Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare progressiva dall’età di 16 anni, sono note poichè le rispettive famiglie le hanno affrontate pubblicamente, facendo anche ricorso alle decisioni della giurisdizione civile.

Stefano Rodotà ha insegnato diritto civile alla Sapienza di Roma (di cui è professore emerito) e in numerose Università oltrefrontiera, tra cui la Sorbonne di Parigi. E’ da sempre impegnato su temi etici e sulla difesa dei diritti della persona. Ha rivestito numerosi incarichi nei Parlamenti nazionale ed europeo e in organismi di prestigio (Presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali in Italia e Presidente dei Garanti europei, Presidente dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea e coautore della Carta dei diritti fondamentali Ue, Membro del Gruppo europeo per l'etica delle scienze e delle nuove tecnologie).

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