Illuminismo e pacifismo

Jean-Jacques Rousseau e la pace perpetua

Il Settecento è stato notoriamente il secolo delle utopie. Uno dei più frequentati temi di riflessione per i filosofi illuministi fu il progetto di una «pace perpetua» da raggiungere attraverso un governo mondiale. Che cosa rimane oggi della gloriosa tradizione di quel «pacifismo giuridico»?
17 dicembre 2003
Alessandro Ferioli
Fonte: http://itcleopardi.scuolaer.it/page.asp?Tipo=GENERICO&IDCategoria=1994&IDSezione=7825&IDOggetto=5066
Il presente articolo, sintesi di una conferenza tenuta dall'autore, è stato pubblicato sul n. 1 (2002) della RIVISTA MILITARE SVIZZERA.

INTRODUZIONE
Gli ultimi decenni del Novecento hanno fatto registrare un aumento considerevole della complessità delle relazioni internazionali; cosa che, a causa anche della simultaneità delle comunicazioni e dell’informazione, ha portato sempre più nazioni alla consapevolezza che esistono problematiche di rilevanza mondiale (come il controllo e l’uso delle risorse del pianeta, lo squilibrio delle ricchezze e l’imperialismo economico, i disastri ambientali e il mantenimento della pace nelle aree più critiche del mondo, per citarne alcune soltanto) che impongono atteggiamenti e decisioni politiche non più individuali, di ogni singolo stato, ma bensì comuni e approvate nell’ambito di ampie aggregazioni sopraistituzionali. A tutto ciò si aggiungono inquietanti segnali provenienti dall’America Latina, forieri forse di un prossimo collasso di quella «classe media del mondo» che sembra essere la prima vittima grave della globalizzazione.
Il pacifismo e le idee di pace, dunque, si ripropongono e s’impongono oggi alla nostra attenzione con imperativi non più eludibili. Tra questi mi pare di potere senz’altro indicare l’urgenza di giungere a soluzioni efficaci e largamente condivise, e al tempo stesso il carattere universale del problema, che non consente più a nessuno di sentirsene dispensato in ragione della sua tradizione neutralistica e regionalistica.
Il Settecento, che è stato il secolo delle rivoluzioni e delle utopie, quello che ha maggiormente insistito sul tema dell’aspirazione alla felicità, sia sul piano individuale che collettivo, annovera una cospicua produzione filosofico-letteraria intorno ai progetti di pace perpetua, che nel corso della prima metà ha visto uno dei suoi migliori risultati in un trattato, apparso per la prima volta nel 1711, ad opera dell’abate di Saint Pierre, Charles-Irénée Castel [1658-1743], nel quale l’autore – che aveva acquisito una importante esperienza come segretario del ministro plenipotenziario francese ai negoziati preliminari della pace di Utrecht – cercava di individuare le condizioni che potessero condurre alla costituzione di una sorta di «lega delle nazioni», in grado di disciplinare le contese fra gli stati e di contenerle all’interno di una dialettica diplomatica, così da non lasciarle sfociare in guerre.
Il pensiero di Saint Pierre proseguiva, riguardo al fine, sulla medesima strada di quello del duca di Sully, Maximilien de Béthune [1560-1641], il quale nei suoi Mémoires scritti nel 1638, in un’Europa ancora insanguinata dalla guerra dei Trent’anni, aveva avvertito l’esigenza di realizzare una repubblica federale europea, retta da un unico governo ispirato alla morale religiosa. Peraltro, appariva ancora particolarmente significativa in quel tempo l’esperienza politica (questa volta concreta, per quanto poco duratura) che verso la fine del Seicento William Penn [1644-1718] era stato in grado di condurre dall’altra parte dell’Oceano, realizzando, a partire dalla colonia da lui fondata (la Pennsylvania) una specie di confederazione non armata che aveva stabilito cogli indiani del nord America rapporti essenzialmente improntati alla non violenza. Il «santo esperimento» - come egli lo definiva – naufragò alfine su alcune proposte di legge per migliorare le condizioni degli indiani e dei negri, ma di esso restava l’idea di un «parlamento universale» nel quale trovassero posto delegati di tutti i paesi, in numero variabile e proporzionato alla grandezza delle rispettive nazioni.

IL CONTRIBUTO DI ROUSSEAU
Seguendo dunque il percorso aperto dagli scrittori citati, anche il filosofo Jean-Jacques Rousseau [1712-1778] offrì alla problematica pacifistica il proprio contributo, con un Jugement sur le Projet de paix perpétuelle (1758) e un Extrait du Projet de paix perpétuelle de M. l’abbé de Saint Pierre (1761), nei quali in forma di commento all’opera di Saint Pierre (ma con una originalità e profondità di pensiero tali da finire col mettere in luce molti aspetti che nel modello erano soltanto abbozzati) prefigurava la futura costituzione di una confederazione europea.
Alla base della ricerca di una via giuridica – cioè attraverso organismi sopranazionali che limitino o superino l’idea di sovranità nazionale – per giungere a una pace stabile e duratura (anzi: definitiva) sta la convinzione, che nel secolo dei lumi era già assodata, secondo la quale la guerra, alla quale sono spinti i sovrani per brama di conquiste, si riveli invece in realtà sempre dannosa per tutti, in quanto essa riduce la libertà di commercio, manda in rovina le industrie, interrompe l’attività civile della società.
Ad ispirare l’idea di un governo sopranazionale – ovvero al di sopra dell’autorità dei singoli sovrani – fu sicuramente il tradizionale modello filosofico sull’origine dello «Stato», inteso dagli illuministi (e tra i primi Hobbes e lo stesso Rousseau) come un prodotto artificiale, derivato da una libera scelta degli uomini i quali, dopo essersi resi conto che lo «stato di natura» (cioè l’anarchia, la vita senza leggi) equivale alla supremazia del più forte sul più fragile, avrebbero deciso di limitare le proprie libertà sfrenate conferendo certi poteri a una autorità superiore, incaricata di amministrare alcuni aspetti della vita della comunità, come ad esempio la giustizia, disponendo anche di una forza adeguata per imporre le proprie disposizioni. Tale modello (che a giudizio dei filosofi illuministi aveva dato vita allo «Stato», consentendo in tal modo ai cittadini una vita più pacifica attraverso un’opportuna regolamentazione dei rapporti interpersonali) avrebbe potuto essere trasferito con successo nell’ambito politico, così da dare vita a una confederazione sopranazionale alla quale i vari sovrani affidassero taluni compiti, rinunciando volontariamente a una parte delle proprie libertà e legandosi fra loro con un «patto» analogo a quello che unisce i cittadini di uno stato.
I risultati da conseguire attraverso una confederazione europea sono secondo Rousseau sostanzialmente due. In primo luogo è indispensabile che la confederazione divenga a tal punto estesa che nessuna potenza rifiuti di farne parte, ed è altresì necessario che essa presenti al contempo caratteristiche di stabilità politica che la rendano durevole nel tempo, evitando che gli stati vi aderiscano o se ne allontanino in base ai loro interessi contingenti. In secondo luogo è necessaria l’istituzione di un «tribunale giudiziario», ovvero di un organismo sopranazionale che stabilisca leggi e regolamenti vincolanti per tutti i paesi membri della confederazione, e possieda altresì adeguati strumenti coercitivi (cioè una forza militare) per fare rispettare le decisioni assunte.
Il progetto prevede la realizzazione dei cinque articoli seguenti.
Il «primo articolo» prescrive che l’alleanza stabilita fra i capi di stato sia perpetua e irrevocabile, e che periodicamente si tengano congressi per affrontare e risolvere le controversie internazionali. In effetti l’idea di dirimere le crisi fra stati attraverso conferenze periodiche ebbe come è noto una certa fortuna nella storia, e trovò una prima applicazione nel Congresso di Vienna del 1814-15, che portò alla stipulazione della Santa Alleanza e della Quadruplice Alleanza, aventi lo scopo di sostenere con la forza militare le deliberazioni del Congresso. Tuttavia, è evidente che il fine di tale politica «dei congressi» non era tanto quello di realizzare una pace perpetua basata su un governo mondiale, quanto piuttosto di istituire e mantenere un equilibrio fra le potenze europee che si fondasse sullo status quo preesistente: in altre parole, lo strumento solidaristico aveva come obiettivo una politica comune di difesa degli interessi dei sovrani legittimi, volta a neutralizzare movimenti e idee rivoluzionari, più che a tradurre in atto le velleità irenistiche dei filosofi del Settecento. I motivi per i quali la confederazione deve essere irrevocabile sono chiari: uno stato che non riuscisse a fare accettare dalla comunità internazionale le proprie ragioni e comportamenti, potrebbe decidere di uscire dall’alleanza dopo esservi opportunisticamente entrato e rimasto sino a quel momento per vedere tutelati i propri diritti.
Il «secondo articolo» prevede la specificazione del numero degli stati i cui ministri avranno diritto di voto alla dieta, il periodo di reggenza della presidenza della dieta e le modalità di alternanza dei rappresentanti delle diverse nazioni alla presidenza stessa.
Il «terzo articolo» stabilisce che la confederazione garantirà agli stati (o meglio, ai sovrani) aderenti la loro integrità territoriale, in base ai possedimenti all’atto dell’adesione alla confederazione. Stabilendo una volta per tutte i diritti territoriali di ciascuno stato, nonché le modalità di successione dei sovrani per via elettiva o ereditaria, il Progetto mette al riparo da conflitti di conquista, sottoponendo comunque ogni pretesa da parte di un qualunque stato alle decisioni delle confederazione.
Il «quarto articolo» impone di specificare i casi in cui un alleato che violasse il trattato possa essere messo al bando della comunità e considerato nemico pubblico: ciò avverrebbe in particolar modo se rifiutasse di dare attuazione alle deliberazioni della dieta o intraprendesse azioni o preparativi di guerra. Si tratta in effetti di un punto cruciale, in quanto investe la questione, delicatissima, della coattività delle decisioni della comunità internazionale, che Rousseau liquida forse un po’ troppo sbrigativamente, stabilendo che gli stati aderenti attuino congiuntamente un’offensiva armata contro ogni stato messo al bando, sino a quando questo non si sarà arreso e non avrà dichiarato di accettare le leggi della comunità. Rimane però aperto il problema della libertà: l’imposizione forzata del volere della comunità nei confronti di uno stato corrisponde infatti alla violazione della libertà di quel popolo, e d’altra parte nulla ci assicura dal sospetto che le decisioni della comunità (unica detentrice della violenza legale) nascondano dietro di sé la volontà delle nazioni più potenti. Quello dei poteri è in effetti un tasto dolente che anche Immanuel Kant lasciò senza soluzione nel suo trattato Per la pace perpetua (1795), non prevedendo per l’ipotetica confederazione alcun potere più elevato al quale conferire l'uso della forza per ristabilire un eventuale diritto leso. La conseguenza politica di queste osservazioni è di portata tale da mettere irrimediabilmente in discussione la credibilità e la ragione d’essere della confederazione: senza libertà non è possibile l’esistenza della confederazione, alla quale difatti si accede liberamente attraverso un patto derivante dalla volontaria rinuncia di farsi guerra; ma il rispetto assoluto della «libertà» degli altri toglierebbe poi di fatto alla confederazione la possibilità di servirsi di adeguati strumenti coercitivi (sarà sufficiente ricordare, a tale proposito, i tentativi fallimentari operati dalla Società delle Nazioni nel 1935 per impedire l'aggressione all'Etiopia da parte dell'Italia, che avvenne comunque, nella riprovazione dell’opinione pubblica mondiale, e nonostante l’embargo decretato dalla Società). Le attribuzioni giuridiche del «senato» europeo dunque dovrebbero essere pressappoco quelle di una Corte permanente di arbitrato, ma anche al tempo stesso di una Corte internazionale di giustizia; e le sue funzioni dovrebbero riguardare tutte le forme di controversie, con conseguente ampia facoltà di ingerenza nella politica interna degli stati aderenti: la mediazione tra due litiganti; il giudizio; la proscrizione dall’unione dei disubbidienti (non escludendo facoltà di intervento in presenza di guerre civili o rivoluzioni).
Il «quinto articolo» - che è anche l’ultimo – regola le modalità di legiferare da parte della dieta europea secondo maggioranza, stabilendo però che i cinque articoli che stiamo passando in disamina non possano in futuro essere modificati se non col consenso unanime di tutti i confederati, dal momento che essi, pur nella loro essenzialità, rappresentano una sorta di «carta costituzionale» della confederazione.

L’ESEMPIO DELLA CONFEDERAZIONE ELVETICA
In una forma di siffatto governo sopranazionale Rousseau ricerca i vantaggi di una grande potenza, robusta e in grado di difendersi dall’esterno con la sola forza della «deterrenza»; ma anche quelli di un piccolo stato – come la Lega Elvetica – capace, proprio per le sue ridotte dimensioni, di realizzare una democrazia quasi diretta, nella quale la volontà dei governanti coincida perfettamente con quella dei governati, essendo espressione diretta di questa. Conformemente alla sua convinzione in base alla quale «il governo democratico si addice ai piccoli stati» (Contrat, III 3), l’istituzione ideale per Rousseau sarebbe la città-stato sul modello della polis greca o della Roma repubblicana, dove l’esercizio del potere risulta sottoposto alla verifica praticamente immediata da parte dell’assemblea popolare; cosa che, a suo giudizio, stava avvenendo anche ai tempi suoi nella città di Ginevra e nelle istituzioni cantonali svizzere. Le origini ginevrine di Rousseau portano difatti un ulteriore e qualificante contributo alla definizione della sua ipotesi di confederazione; un apporto che nella sua opera riaffiora continuamente come una preoccupazione forte: l’esigenza cioè di salvaguardare sempre i diritti della «piccola patria», delle identità più profonde e ataviche dei popoli, come unica condizione per poter costruire un’Europa federale (che oggi ci piacerebbe di pensare come una «umanità federale») rispettosa tuttavia delle singole patrie e dei regionalismi. Sono infatti le istituzioni nazionali (dalla forma di governo alla cultura, sino alle tradizioni popolari) a plasmare il carattere di un popolo, rendendolo veramente se stesso e inducendolo a riconoscersi nei valori e nelle abitudini sue proprie; da ciò – e soltanto da ciò – deriva l’amore patrio.
Gli utopisti del Settecento furono sempre piuttosto ostili all’idea di un esercito permanente, per quella molteplicità di ragioni che allora erano ben diffuse: l’impossibilità etica per l’uomo di fare il militare professionista, dal momento che tale condizione induce troppo facilmente a velleità di conquista e di dominazione; la possibilità che l’esercito regolare venga impiegato nell’ambito della politica interna, per sostenere faziosamente un partito a scapito di altri, o per fare prevalere l’esecutivo sugli altri poteri; il costo eccessivo delle truppe regolari di contro all’economicità delle milizie cittadine.
L’esercito auspicato da Rousseau è invece quello sul modello svizzero, che il filosofo descrive così: «In Svizzera ogni privato che si sposa è obbligato ad essere provvisto di un’uniforme che diventa la sua tenuta festiva, d’un fucile di un certo calibro, e di tutto l’equipaggiamento da fantaccino, e viene iscritto nella compagnia del suo quartiere. Nell’estate, la domenica e i giorni festivi, queste milizie vengono esercitate secondo l’ordine dei loro ruoli, dapprima per piccole squadre, poi per compagnie, poi per reggimenti; fino a che, al sopraggiungere del loro turno, si riuniscono in campagna e formano successivamente dei piccoli accampamenti in cui vengono addestrate in tutte le manovre che spettano alla fanteria. Finchè non si spostano dal loro luogo di residenza, i componenti, poco o nulla distolti dal loro lavoro, non percepiscono nessuna paga, ma appena muovono in campagna ricevono il rancio, sono al soldo dello Stato e a nessuno è permesso di mandare un altro al proprio posto perché ciascuno deve fare personalmente il suo addestramento e tutti devono prestare servizio» (Considérations sur le gouvernement de Pologne, cap. XII).
Secondo il ginevrino il migliore indizio della gioventù e della gagliardia di un popolo è proprio l’esercito di milizia: «tutti i cittadini sono soldati in tempo di guerra e in tempo di pace non ci sono più soldati» (Frammenti sulla guerra, n. 3). Aggiungiamo anche un’ulteriore considerazione di forte attualità, sulla grande importanza che Rousseau attribuiva alla considerazione sociale dell’esercito di milizia: affinché il sistema funzioni, è difatti indispensabile che il cittadino che serve la patria e fa il proprio dovere goda di prestigio e di rispetto da parte della opinione pubblica, che avverta intorno al proprio operato un consenso forte e condiviso.

QUALE LEZIONE PER IL PRESENTE E PER IL FUTURO?
La confederazione secondo Rousseau è inevitabile, in quanto tutte le potenze europee già nel Settecento erano a suo parere unite in quello che egli chiamava una «sorta di sistema», caratterizzato dalla condivisione di valori ed elementi comuni: la tradizione giuridica, la religione, la cultura, gli scambi commerciali, ecc. Ciò che ai tempi suoi appariva ai più come un’utopia (e a molti una follia) è oggi in corso di costruzione, e la realizzazione dell’Unione Europea sta subendo proprio in questi anni una brusca quanto entusiasmante accelerazione.
La recente entrata in vigore dell’Euro come moneta unica ha segnato un momento importante nella storia della integrazione europea. Si sapeva che la rinuncia da parte dei Paesi della U.E. alla sovranità monetaria, intesa come abbandono della piena sovranità nel controllo della politica economica, avrebbe rafforzato i legami fra gli stati aderenti, a tutto vantaggio della coesistenza pacifica, e avrebbe al tempo stesso accelerato il processo di unificazione; da quindici che sono oggi, difatti, il numero delle nazioni aderenti dovrebbe salire a venticinque nel 2004, con l’ingresso dei Paesi dell’Europa orientale; inoltre è prevista la preparazione, nell’arco di un anno o poco più, di una Carta Costituzionale europea, per la cui elaborazione l’Italia rivestirà un ruolo fondamentale nel semestre in cui la presidenza della Convenzione sarà ricoperta dal Presidente del Consiglio Berlusconi.
Viene quindi spontaneo chiedersi se la “lezione” di Rousseau sia oggidì ancora attuale. Diciamo subito che – nonostante i nostri personali entusiasmi – uno studio dei progetti settecenteschi di pacifismo giuridico effettuato con lo scopo di applicarli oggi, più o meno così come furono formulati, sarebbe senz’altro poco proficuo, tanto diverse sono le condizioni che ci si presentano attualmente. Tuttavia, dal progetto di Rousseau, dalle Considerazioni che egli scrisse per un’idea di governo in Polonia, e persino dal suo epistolario personale, emerge sempre quella preoccupazione alla quale già abbiamo fatto cenno: la difesa delle «piccole patrie». Nell’Europa odierna le piccole patrie, intese come regioni tenacemente attaccate alle proprie autonomie, esistono ancora, grazie al cielo. Da decenni, con la forza della politica (e talvolta purtroppo anche con quella delle armi) i Paesi Baschi, la Catalogna, la Galizia, il Galles, la Scozia, la Corsica, la Bretagna, i valloni e i fiamminghi belgi continuano ostinatamente a rivendicare la propria autonomia, che l’U.E. invero non sembra avere alcuna intenzione di valorizzare.
Ma «la piccola patria – ha ricordato di recente Nicola Matteucci sul Giornale del 19-2-02 – svolge una duplice funzione: da un lato contro la globalizzazione difende i costumi, le consuetudini, lo stile di vita, il cibo propri della gente che vi abita. Ogni città, anche piccola, difende la sua banda, che esprime i valori della comunità. Dall’altro lato la piccola patria serve a sottrarre alla burocratica e centralistica Commissione poteri assai ridicoli: essa vuole stabilire il diametro della frutta e della verdura e ancora se il nostro lardo di Colonnata si può mangiare soltanto in Italia». La coesistenza di un governo della U.E. forte, con poteri autentici ma limitati ai campi di interesse essenziali, e di piccole patrie custodi delle tradizioni locali ed espressioni di un vero pluralismo, sono dunque possibili; ciò che bisogna comprendere (e che Rousseau a nostro giudizio aveva ben chiaro) è che un governo della U.E. deve essere qualcosa di molto diverso da una replica su scala più vasta del modello di «stato sovrano».
Concludiamo infine con le parole usate dal ginevrino in apertura del suo Giudizio sul progetto, nella certezza che esse condensino efficacemente il significato etico di una incessante ricerca della pace attraverso gli ordinamenti giuridici sopraistituzionali; quella ricerca della pace che – secondo lo stesso Rousseau – rappresenta l’obiettivo più degno d’impegnare un galantuomo: «Se mai una verità morale fu dimostrata mi sembra che sia l’utilità generale e particolare di questo progetto. I vantaggi che risulterebbero dalla sua attuazione e per ogni principe, e per ogni popolo, e per tutta l’Europa, sono immensi, evidenti, incontestabili. […] Attuare la repubblica europea per un giorno solo basterebbe per farla durare per sempre, a tal segno ciascuno troverebbe, attraverso l’esperienza, il proprio vantaggio particolare nel bene comune».
Ecco il vero nodo gordiano che l’uomo di questo nostro Secolo ha finalmente la possibilità di sciogliere: realizzare il “bene comune”, individuando e riconoscendo in esso il proprio vantaggio personale; o comunque una convenienza maggiore di altre più incerte ed effimere. Sembra facile almeno quanto la quadratura del cerchio.

Note: BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
M.G. BOTTARO PALUMBO, R. REPETTI (a c. di), Gli orizzonti della pace. La pace e la costruzione dell’Europa (1713-1995), Genova 1996
G. BOUTHOUL, La pace tra storia e utopia, Roma 1976
P. CHAUNU (a c. di), Les fondaments de la paix. Des origines au début du XVIIIe siècle, Parigi 1993
R. DIODATO, Pacifismo, Milano 1995
L. FIRPO (a c. di), Studi sull’utopia, Firenze 1978
W. B. GALLIE, Filosofie di pace e di guerra, Bologna 1993
I. KANT, Per la pace perpetua, Editori Riuniti, Roma 1992
J.-J. ROUSSEAU, Scritti politici, spec. voll. II e III, Bari 1971
S. COTTA, Dalla guerra alla pace. Un itinerario filosofico, Milano 1989
F. VENTURI, Utopia e riforma nell’Illuminismo, Torino 1970.

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