Le firme contro le armi atomiche del 1950 furono 519 milioni nel mondo, oltre 16 milioni in Italia

Partigiani della pace

I Partigiani della Pace furono la prima organizzazione internazionale a esprimere un'opposizione alla sfida atomica tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Oggi, di nuovo, occorre rifiutare la contrapposizione fra i blocchi e promuovere l'opposizione al riarmo, al nazionalismo e a tutte le guerre.
30 gennaio 2024
Valeria Poletti

Il movimento dei Partigiani della pace fu protagonista nel parmense di numerose iniziative. Una delle principali ebbe luogo nella cittadina di Fornovo Taro nei primi mesi del 1950, a seguito della volontà da parte del Ministero della Difesa di ricostruire il deposito militare di carburanti. Nella memoria dei fornovesi, quel deposito aveva rappresentato durante la guerra un obiettivo sensibile dei bombardamenti Alleati, contribuendo alle ingenti devastazioni belliche subite dal paese.

Il Movimento dei Partigiani della Pace, del quale Emilio Sereni è stato uno dei fondatori, convocava – nell’aprile del 1949, a poche settimane di distanza dalla firma del trattato istitutivo della NATO – il Congresso mondiale dei Partigiani della Pace cui presero parte piu di 1.000 delegati provenienti da 75 paesi in rappresentanza di numerose organizzazioni internazionali e cui aderirono circa 3000 scienziati, artisti e intellettuali di tutto il mondo. Contemporaneamente delegazioni dell'Europa dell'Est e dell'Asia, alle quali era stato rifiutato il visto per la Francia, si riunivano a Praga.

Il simbolo della pace più conosciuto al mondo è la colomba disegnata da Pablo Picasso per questa prima iniziativa internazionale.

IL RIFIUTO DELLA GUERRA ATOMICA

Come indica chiaramente il suo nome, il movimento nasceva portando in se l’impronta della Resistenza al nazi-fascismo e si poneva nel solco dell’internazionalismo e dell’antimperialismo: era, conseguentemente, contrario alla sfida tra potenze in competizione. Accanto alla condanna politica della divisione del mondo in blocchi contrapposti e del pericolo di uno sbocco militare, il movimento svolse una battaglia più propriamente culturale ed etica contro la nuova, terribile e risolutiva prospettiva della guerra atomica.

L’appello per la messa al bando delle armi atomiche del marzo 1950 raccoglierà oltre 519 milioni di firme nel mondo, 16.680.669 nella sola Italia.

I LIMITI STORICI DEL MOVIMENTO

Per quanto essenziale fosse l’opposizione allo sviluppo dell’arma nucleare, la scelta di schierarsi con uno dei blocchi antagonisti ha portato il Movimento dei Partigiani della Pace ad accettare passivamente l’intervento sovietico in Ungheria ed a privilegiare una visione pregiudizialmente ideologica rispetto alla critica delle armi e all’opposizione alla guerra.

Molta parte della sinistra assimilerà la militanza antimperialista con il semplice schierarsi contro il blocco occidentale guidato dagli Stati Uniti, allora e per molti anni certamente predominante quanto a forza militare e determinazione politica. L’obiettivo di costruire le premesse della pace attraverso l’azione delle classi subalterne unite nelle istanze internazionaliste per il riscatto sociale e l’autodeterminazione si convertiva nell’imperativa volonta di “vincere”.

RACCOGLIAMO IL FILO 

Perché, allora, raccogliere il filo lasciato cadere a terra dai Partigiani della Pace?

Oggi le guerre in Ucraina e Gaza, nate, secondo la versione dell’informazione ufficiale, da conflitti locali, investono potenze regionali e coinvolgono le grandi potenze nel sostegno attivo dei diversi fronti con la costituzione di alleanze di volta in volta strategiche o contingenti.

Ciò che e cambiato e che sono emerse, nel corso degli ultimi 20 anni, potenze regionali in grado di competere con la superpotenza americana sul piano non solamente economico-produttivo ma anche tecnologico e, in prospettiva, militare.
La “de-globalizzazione” e le sconfitte sul campo (in Afghanistan come in Siria) hanno cancellato l’aspirazione americana a globalizzare il suo dominio sul pianeta attraverso l’”esportazione della democrazia”, cioé del realizzare la propria espansione imperialistica attraverso l’imposizione planetaria del suo modello di governo.
Nessuna potenza vuole arrivare ad un confronto militare diretto. Per Washington, però , è altrettanto chiaro che la competizione con Pechino non potra essere vinta con gli strumenti del predominio economico e tecnologico.

ROMPIAMO I FRONTI

Il continuo evolversi degli scenari di guerra e la pervasiva campagna mediatica schierata a sostegno dell’uno o dell’altro fronte hanno diffuso a livello di massa un pervasivo sentimento di antagonismo tra le popolazioni, anche tra quelle non direttamente colpite.
L’odio, in tutte le sue sfumature, non si è riversato sui responsabili – vertici politici e militari – dei conflitti, ma sulle comunità che ne sono, consenzientemente o meno, vittime. Sui russi come sugli americani, sui musulmani come sugli ebrei, dipende dagli schieramenti. Dall’una e dall’altra parte, in molti casi, trova consenso la giustificazione della “guerra giusta”. Fare opposizione alla guerra imperialista impone di rompere patti sociali che permettono di ignorare il dissenso e reprimere l’opposizione. E necessario enfatizzare e inasprire le contraddizioni che lo stato di belligeranza genera sui territori e nella miseria del quotidiano, diffondere comportamenti di solidarietà attiva con migranti, disertori e renitenti, unire le ragioni dell’antimilitarismo alle lotte dei giovani ambientalisti uscendo dalla forma della pura protesta. Opporsi alla guerra significa anche rompere ogni forma di nazionalismo.

DISARMIAMOCI

Mobilitarsi nell’immediato contro la partecipazione, diretta o indiretta, del nostro Paese alle guerre in corso, e evidentemente necessario, ma sappiamo che non sara una stagione di proteste a fermare le guerre in corso.
L’erosione della democrazia liberale presuppone che i cittadini all’interno dello Stato siano forza passiva, non un soggetto con il quale avere un’interlocuzione politica attiva: un’azione efficace può ostacolare l’estensione del conflitto riportando le organizzazioni sociali, politiche e sindacali dei lavoratori ad avere un ruolo attivo.

Contrastare i piani di riarmo, convenzionale e nucleare, è un’esigenza primaria ed è possibile osteggiare le condizioni economiche e sociali che ne permettono la realizzazione.

Che le spese militari assorbano finanziamenti e risorse statali che vengono sottratte alla spesa pubblica per ambiente, sanità, istruzione, ricerca di base impoverendo il patrimonio collettivo lo sanno tutti. Che si tratti di investimenti improduttivi che generano ricchezza solamente alle imprese del comparto militare-industriale impoverendo tanto gli altri settori produttivi nel loro complesso quanto, di conseguenza, il lavoro dipendente è una considerazione in genere trascurata.

La spesa pubblica può essere tanto più finalizzata all’investimento militare e alla spesa per la guerra quanto meno viene rivendicata e ottenuta dai lavoratori per finanziare lo stato sociale, la sanità pubblica, l’istruzione libera e gratuita.

Per costruire un movimento di contestazione ai vertici del Consiglio Europeo e necessario avviare un processo verso una solidarietà internazionalista comune a tutte le organizzazioni antimilitariste e autenticamente pacifiste nei Paesi dell’Unione.

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