La "guerra giusta" secondo i primi cristiani e Manzoni
Cosa pensava Alessandro Manzoni della guerra? Era un pacifista o un guerrafondaio?
Nei Promessi Sposi Manzoni considera una follia fratricida sia la guerra sia ogni forma di violenza.
Padre Cristoforo infatti rimprovera Renzo tutte le volte che il protagonista dell’opera manzoniana ha intenzione di farsi giustizia da solo. Il saggio frate infatti sa a sue spese cosa vuol dire agire d’impeto facendo uso della violenza.
Manzoni descrive in modo molto negativo i moti di piazza che portano, nei Promessi Sposi, all’assalto ai forni. Nel romanzo inoltre il passaggio dei soldati mercenari da Milano è collegato alla peste ed emerge nel complesso una condanna delle guerre del Seicento.
Ma la condanna dell’uso della violenza presente nei Promessi Sposi venne duramente contestata dai politici estremisti del Risorgimento a tal punto che questi lo accusarono di insegnare agli italiani la rassegnazione alla tirannide.
Sembra dunque che Manzoni sia stato un fermo oppositore alla guerra. Ma in Manzoni è presente anche l’idea di un Dio che guida il suo popolo nella guerra contro l’oppressore. E non una “guerra nonviolenta”. Al punto che Dio salvò Israele dall’inseguimento del tirannico Faraone ed armò Giaele affinché uccidesse l’oppressore del suo popolo.
C’è qui un messaggio nascosto con il quale Manzoni esorta gli italiani a cercare di vincere risvegliando nei combattenti, con le sue parole, l’eroismo per la “guerra di liberazione”.
E’ a questo punto evidente quella che può sembrare una contraddizione: la guerra è una follia fratricida ma può essere anche giusta nel momento in cui può diventare uno strumento utile per liberarsi da un oppressore. Da una parte vi è la condanna delle guerre fatte per capriccio o per voglia di conquista da parte dei sovrani; dall’altra vi è la giustificazione per le guerre di liberazione nazionale.
Manzoni contribuisce così a elaborare una condanna della guerra che salva le eccezioni delle “guerre giuste”, sulla scia della cultura cattolica che in generale si opponeva all’uso indiscriminato della violenza ma che lo ammetteva per i casi estremi di legittima difesa e per i casi in cui vi fosse un interesse superiore e generale per cui agire.
Nel periodo costantiniano la Chiesa comincia ad elaborare una sua teoria della "guerra giusta". Questa dottrina della guerra è più che altro sintomo dell’esigenza da parte della Chiesa di adattarsi all’ambiente circostante, ma soprattutto al suo essere uno “stato”.
Elaborò una distinzione fra uno jus ad bellum ed uno jus in bellum. Rispettivamente: quando bisogna entrare in guerra? E come comportarsi in guerra? È un vero e proprio codice normativo che ci è stato tramandato fino ai nostri giorni sotto certi aspetti.
Per quanto riguarda lo jus ad bellum:
deve sussistere una giusta causa che non sia di ritorsione o vendetta;
deve essere dichiarata da un’autorità pubblica o legittima;
entrambe le parti in conflitto debbono dichiarare se è ammissibile il sacrificio di vite umane vista la situazione;
non deve essere contemplata una distruzione del nemico e soprattutto una repressione dell’innocente;
i costi devono essere proporzionati al bene che si spera di ottenere;
devono esserci condizioni di un probabile successo;
deve essere l’ultima ratio.
Per quanto riguarda lo jus in bellum: quali tattiche? Ad esempio: non attacchi contro obiettivi civili. In seguito, nell’XI secolo, diverse tradizioni ed istituti cercheranno di limitare i conflitti armati (la Tregua di Dio e la Pace di Dio). Furono vere e proprie indicazioni pastorali, discusse anche in alcuni sinodi, che erano espressione del fermento di pace che promana dall’evangelo. La tradizione francescana si farà portavoce illustre di questo fermento.
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