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Morti bianche. Non si fermano gli infortuni nella capitale dell'acciaio

Ilva, ogni giorno è una minaccia

Ieri altri due infortunati nello stabilimento tarantino dove lo stillicidio di morti e feriti è quasi quotidiano. Padron Riva accusa addirittura gli operai: «Va licenziato chi non rispetta le norme». Le difficoltà del sindacato e degli ambientalisti
Manuela Cartosio
Fonte: Il Manifesto - 24 novembre 2004

«Uguale, identico, una fotocopia». Massimo Battista, dell'escutivo Fiom dell'Ilva di Taranto, ha ragione. L'infortunio di ieri mattina è un replay di quello successo lo scorso agosto. Stesso reparto, Tubificio 2. Stessa macchina, una «cianfrinatrice» per smussare le imperfezioni sui tubi. Stessa causa: non hanno funzionato gli automatismi che bloccano i tubi a «fine corsa». Una differenza, per fortuna, c'è. L'infortunio di agosto causò la morte di un operaio. Quello di ieri ha ferito gravemente due tecnici: Mauro Guitto, caporeparto delle manutenzioni meccaniche, e Roberto Bettoni, gestore impianti. Sono ricoverati all'ospedale Santissima Annunziata. Dovrebbero cavarsela, anche se la prognosi è riservata.

Secondo la ricostruzione dell'azienda, i due tecnici avevano verificato un'abbondante perdita di olio dalla cianfrinatrice. L'azienda non precisa se e come siano intervenuti sulla macchina. Si limita a dire che i due lavoratori, dopo averla rimessa in moto, sono stati colpiti da un tubo schizzato fuori dalla cianfrinatrice. Manca, al momento, la versione del sindacato. Agli Rls, i delegati alla sicurezza, è stato impedito l'accesso al luogo dell'infortunio. Non dall'azienda, ma dall'ispettore dell'Asl. «E scriva il suo nome», insiste l'esponente della Fiom, «questo signore si chiama Bruno Giordano e noi domani lo denunciamo in procura».

Dalle 9,30 di ieri alle 7 di oggi il Tubificio 2 si è fermato per uno sciopero di protesta. Contro un infortunio che il segretario della Uilm di Taranto Rocco Palombella definisce di «inaudita gravità». Per almeno due motivi. I ripetuti «incidenti» causati dalle cianfrinatrici avrebbero dovuto imporre all'azienda «una serie infinita di precuazioni e cautele». La recidiva di ieri dimostra che l'azienda non ha adottato neppure le misure di sicurezza più ovvie. Le vittime, questa volta, sono «tecnici di elevata professionalità». Per di più capi, aggiungiamo noi. A loro il patron dell'Ilva, Emilio Riva, non potrà rimproverare la sventatezza che è solito imputare agli operai che si infortunano.

Che gli operai si facciano male per colpa loro è una tesi che il padrone delle ferriere aveva riproposto in pubblico ancora mercoledì, per festeggiare a modo suo l'inaugurazione di un presidio dell'Inail all'interno dell'acciaieria di Taranto. Trascriviamo testualmente: «Se noi riusciamo a stringere un po' la corda per punire la gente che non rispetta le normative e gli diamo uno, due, tre giorni di sospensione o arriviamo al licenziamento, il 50% degli infortuni diminuisce... Chi sbaglia deve pagare... Uno che ha fatto una cosa non giusta preferisco licenziarlo che perdonarlo. E' una teoria un po' grande, ma io sono di questo parere. Lasciamo stare i morti o i feriti gravi, quella è una cosa ignobile e vergognosa. Quando c'è un incidente grave, sono io che impazzisco e divento una bestia, se è avvenuto per confidenza o noncuranza».

L'etica di patron Riva

L'uomo è fatto così e dubitiamo che ieri mattina, dopo l'infortunio al Tubificio 2, si sia morso la lingua. Emilio Riva non è un tipo che si penta o provi vergogna. «E' un padrone», dice Francesco Fiusco, segretario della Fiom di Taranto. Che governa con metodi da caserma un impianto siderurgico che fa profitti altissimi e dove si contano più di 3 mila infortuni all'anno e altrettante sanzioni disciplinari, che avvelena l'ambiente, fa ammalare chi ci lavora e chi ha la disgrazia di abitarci vicino. Fiusco trova «stucchevole» insistere sul «personaggio» Riva. Preferisce riflettere, con preoccupazione, sull'atteggiamento morbido e comprensivo che le «istituzioni» dimostrano verso il gruppo Ilva. Asl, Inail, Comune, Provincia, Regione. «Il sindacato ha ingaggiato una battaglia vera contro Riva. E si sente solo».

Anche sul presidio-ambulatorio dell'Inail, inaugurato l'altro ieri, le opinioni di sindacato e «istituzioni» non collimano. «Un passo avanti, un segno d'apertura», ha detto tagliando il nastro il «governatore» della Puglia Nichi Vendola. «Pure a noi sta bene che l'Inail entri all'Ilva», replica il delegato Massimo Battista, «ma per girare nei reparti, per fare prevenzione, non per stare dietro la scrivania a certificare gli infortuni che avvengono». Il direttore generale dell'Inail Maurizio Castro, sceso a Taranto per firmare la convenzione con Riva, ha affermato che da gennaio a ottobre di quest'anno gli infortuni all'Ilva sono calati del 25% rispetto allo stesso periodo del 2005. Dunque, fioccheranno i bonus da 100 euro promessi dal Gruppo Riva a chi lavora nei reparti dove gli infortuni diminuiscono (secondo l'azienda «almeno» il 30% degli infortuni sono «anomali», inventati dagli operai assenteisti). Un buono acquisto da spendere in un negozio di articoli sportivi, ovviamente indicato da padron Riva. «Manco bastano per pagare le corone di fiori per i funerali», commenta acido il delegato Fiom.

L'Ilva inquina la città

Vanno meglio le cose sul versante ambientale? Alessandro Marescotti, che per PeaceLink ha monitorato gli effetti devastanti dell'Ilva su aria, suolo, salute, non vede «passi avanti», nonostate gli accordi di programma firmati tra enti locali e Gruppo Riva. «I dati precedenti agli accordi erano falsi. Quelli successivi, ammesso vengano raccolti, noi non li conosciamo». Occhio, chi abita al quartiere Tamburi raccoglie ogni giorno la sua palettata di polvere nera da terrazzi e stanze. Polveri emesse dalle cokerie e dai «parchi minerari» dell'Ilva. Contengono un bel cocktail di idrocarburi policiclici aromatici, compreso il benzoapirene, sicuramente cancerogeno. Dal 1970 al 2000 la mortalità per tumore a Taranto è raddoppiata. Il registro delle fonti inquinanti dell'Unione europea stima che Taranto si becca l'8,8% della diossina emessa in Europa, il 30% di quella emessa in Italia. Stima, «perché qui nessuno la misura», dice Marescotti.

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