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Il Triangolo Maledetto

Il silenzio degli innocenti è calato sulle fattorie di Angelo Fornaro, Giuseppe Sperto, Cosimo Quaranta e i loro allevamenti, localizzati dalle autorità nel triangolo maledetto inquinato dalla diossina fra Taranto, Statte e le acciaierie Ilva. Un’ordinanza della Regione Puglia ha stabilito che i 1.050 capi di bestiame contaminati vanno abbattuti.
Fonte: Famiglia Cristiana

- È quello compreso tra Taranto, Statte e le acciaierie Ilva. Qui dovranno essere abbattuti 1.050 capi di bestiame che pascolavano nella zona contaminata dalla diossina. Il silenzio degli innocenti è calato sulle fattorie di Angelo Fornaro, Giuseppe Sperto, Cosimo Quaranta e i loro allevamenti, localizzati dalle autorità nel triangolo maledetto inquinato dalla diossina fra Taranto, Statte e le acciaierie Ilva.

Un’ordinanza della Regione Puglia, dopo mesi di indagini della Procura di Taranto, ha stabilito che i 1.050 capi di bestiame che pascolano nella zona dovranno essere abbattuti, perché gli esami delle autorità sanitarie hanno rivelato livelli di diossina troppo alti nelle carni degli animali.

«Scrivi la mia lettera agli agnelli che non nasceranno, a quelli che sono già nati e pensavano di morire di Pasqua invece che di inquinamento; e scrivi pure di quelli che non nasceranno più. Scrivi, scrivi». Cosimo Quaranta, 58 anni, trecento fra capre e pecore, non si dà pace mentre il belato degli agnelli della fattoria di Angelo Fornaro, detto "don Angelo" per rispetto, si fa assordante.

All‘agnello mai nato: «Sei un agnello fortunato perché non verrai in questo mondo qui, puzzolente e avvelenato». A quello già nato: «Sei sfuggito alla Pasqua, ma sei intossicato come tanti figli nostri». All’agnello che non vedrà più nascere: «Non ci sarai più tu, ma neanche io, perché la mia vita dipendeva dalla tua».

"Don Angelo" è quello più colpito dal provvedimento della Regione Puglia: «Debbo portare al macello tutte le cinquecento pecore e agnelli che ho e che tengo chiusi qui da marzo; da quando si sono accorti che non c’è più nulla di sano in quei fili d’erba intorno all’acciaieria Ilva. La Regione ha stanziato 160 mila euro che dobbiamo dividerci fra tutti. Ovviamente è una somma che non ci ripaga di nulla, e tuttavia non è questo il problema, perché noi ci domandiamo cosa faremo io e i miei figli che lavorano con me. E che ne sarà dei miei quaranta ettari di proprietà sui quali sono stati posti i sigilli?».

Lo sguardo corre ai camini del complesso industriale che vomitano fumi tutti i giorni, tranne il venerdì quando la colata di acciaio fa sprigionare una nube rossa che il vento porta poi a depositarsi sulla campagna e sulle case d’intorno, persino sul cimitero di Taranto ridotto a quel solo, malato colore.

Due modi diversi di morire

Enzo, il figlio di "don Angelo", racconta che quelli delle acciaierie hanno battuto in lungo e in largo la campagna intorno allo stabilimento industriale, chiedendo a tutti se vi fossero prima dell’Ilva, o contestualmente, fabbriche a rischio diossina: «Stanno cercando di imputare ad altri le responsabilità», racconta Enzo, «ma a noi risulta che c’era una sola fabbrica, indiziata, ma ha chiuso dieci anni fa. Le mie pecore più vecchie non arrivano a quell’età e la diossina trovata nei fili d’erba che mangiano è della primavera scorsa, figuriamoci gli agnelli. Comunque, aspettiamo l’esito delle analisi per giudicare, poi chiederemo giustizia».

Angelo Fornaro ha perso la moglie per tumore, suo figlio Enzo è stato operato di cancro al rene, gli è stato tolto; suo fratello sta curando un’altra forma tumorale: «Per fortuna mia sorella è scappata a Roma. Lei la scamperà», sorride amaro Enzo.

«Se nelle carni dei nostri agnelli e delle nostre pecore c’è la diossina perché non dovrebbe essere dentro di noi?», aggiunge Giuseppe Sperto, 70 anni, 150 pecore, «gli animali verranno abbattuti, noi verremo buttati fuori di qua, due modi diversi di morire».

Al Tribunale di Taranto, fra pochi giorni, si celebrerà il processo di appello a carico del proprietario dell’Ilva Emilio Riva, attualmente impegnato nel gruppo di imprenditori che sta cercando di salvare l’Alitalia. In primo grado era stato condannato a due anni di reclusione in base all’articolo 437 del Codice penale (omissione dolosa delle misure di prevenzione delle malattie sul lavoro). Ma fra qualche giorno arriveranno in Procura anche le analisi richieste dopo la denuncia di gruppi ambientalisti, quando fu scoperta la diossina nel latte degli animali e di cui Famiglia Cristiana diede conto proprio in quei giorni.

Chi inquina, lascia le impronte.

«La provenienza della diossina», spiega Michele Conversano, direttore del Servizio igiene e sanità della Asl 1 di Taranto, «è individuabile, perché ogni tipo di questo flagello reca le impronte digitali di chi la produce». La perizia (necessariamente di parte perché la denuncia è stata sporta contro ignoti), fatta dai tecnici dell’Arpa, sta viaggiando in questi giorni verso gli uffici della Procura. E le impronte sembrerebbero quelle dell’Ilva.

"Don Angelo", racconta suo figlio, ogni notte alle tre, prima di scendere dagli animali, si affaccia sulla terrazza della sua bella casa che fu, prima dei Fornaro, di proprietà di un nobile tarantino; guarda i suoi animali e le sue terre, come suo padre, come suo nonno. E lo farà, assicura, finché avrà respiro.

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