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Ilva, a Taranto pure lo Stato si è liquefatto

Ma i soldi del recovery Plan non potrebbero risarcire Taranto dandole un futuro pulito?

Dopo la sentenza di primo grado che ha condannato i Riva per disastro ambientale e disposto la confisca degli impianti, ed ecco emergere un’impressionante continuità di pratiche illegali finalizzate ad ammorbidire l’azione della magistratura.
11 giugno 2021
Gad Lerner
Fonte: Il Fatto Quotidiano 9.6.2021

Altoforno

Anche lo Stato si è liquefatto al calor bianco dell’acciaieria di Taranto. E’ perfino umiliante sapere che i ministri dello Sviluppo economico e della Transizione ecologica, Giorgetti e Cingolani, in queste ore non possano fare altro che dichiarare: “Aspettiamo la sentenza del Consiglio di Stato”.

Proprio così. Sarà la giustizia amministrativa, nei prossimi giorni, a decidere la sorte dell’area di lavorazione a caldo la cui micidiale nocività è ormai comprovata da anni. Nelle mani dei suoi alti burocrati -dalle carriere intrecciate col potere politico - è affidata una decisione cruciale per il futuro dell’economia italiana e per il destino di oltre mezzo milione di tarantini. Spegnere gli altiforni, dando seguito all’ordinanza del sindaco Melucci, convalidata dal Tar?

Qui lo Stato si divide e si lacera fino all’impotenza. I rappresentanti delle comunità locali, comune e regione, mettono al primo posto la salute dei cittadini e chiedono si ponga fine ai rinvii, ottemperando alle disposizioni della magistratura. Il governo invece confida nel “realismo” dei consiglieri di Palazzo Spada affinché boccino definitivamente la sentenza del Tar, dopo averne sospeso a marzo l’applicazione.

Altrimenti? Altrimenti verranno meno i presupposti della nuova società mista (pubblico-privato) Acciaierie d’Italia, della quale Franco Bernabè è in attesa di diventare presidente. Rendendo concreta l’eventualità di chiusura dell’acciaieria più grande d’Europa. Non era questa la promessa disattesa del M5S tre anni fa, quando vinse le elezioni? Resta una prospettiva considerata desiderabile da una parte significativa della popolazione. Probabilmente è anche l’obiettivo non dichiarabile della multinazionale ArcelorMittal.

La situazione, già drammatica di per sé, è resa oltraggiosa, di fronte al lutto di tante famiglie e al destino incerto di 8200 lavoratori, dalle pratiche di corruttela in cui sembrano impastoiati esponenti delle istituzioni e dei gruppi economici interessati. Neanche dieci giorni sono passati dalla sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Taranto che ha condannato i Riva per disastro ambientale e disposto la confisca degli impianti, ed ecco emergere nella fase successiva, quella dell’amministrazione controllata, un’impressionante continuità di pratiche illegali finalizzate ad ammorbidire l’azione della magistratura.

Sotto accusa, insieme all’avvocato di dubbia fama e al top manager della consulenza aziendale, ecco comparire anche gli uomini dello Stato: il Procuratore capo, l’alto funzionario di Polizia, il carabiniere. In uno scambio redditizio di favori miranti a neutralizzare quella che fin dal 2005 viene indicata come “eccessiva severità” della magistratura tarantina.

Sottovoce lo sentivi ripetere trasversalmente negli ambienti politici, nelle sedi confindustriali e pure tra non pochi sindacalisti: quei giudici esagerano, vanno dietro alle richieste irresponsabili di ambientalisti e comitati popolari, sconfinano dalle loro prerogative, pretendono l’applicazione di normative impossibili da rispettare, ignorano le necessità del sistema manifatturiero.

Come dimenticare il titolo dedicato da “Libero” alla gip Patrizia Todisco nel 2012? “La zitella rossa che licenzia 11mila operai”. E così, oltrepassata l’epoca delle autorizzazioni integrate ambientali cucite su misura nei ministeri romani e delle generose elargizioni per oliare il consenso locale, s’è messo in azione il sodalizio degli Amara e dei Caprisco.

Parliamoci chiaro. Che fin dal tempo lontano dell’Italsider la grande fabbrica funzionasse anche da centro di potere clientelare, e che già allora la tutela dell’ambiente nonché l’antinfortunistica venissero subordinate agli imperativi della produzione, è cosa nota. In Italia, ahimè, quasi inevitabile, tanto più al Sud, dove c’è fame di lavoro. Ma quando l’avvelenamento da polveri si è sommato alle perdite economiche, e perfino la sinistra pugliese si è illusa di trovare nell’industriale privato del Nord un potenziale alleato contro il degrado politico e culturale del territorio, ebbene, allora le contrapposizioni nella società e nelle istituzioni si sono fatte esplosive. Le regole del gioco sono saltate. Abbiamo visto manager incitare gli operai allo sciopero contro i magistrati, con tanto di distribuzione di cestini alimentari ai picchetti. Solo a parole si è riconosciuto il principio costituzionale secondo cui la salute è un diritto “fondamentale” (articolo 32), sempre affiancato ipocritamente al diritto al lavoro. Costringendo le famiglie degli operai a un’alternativa esistenziale inaccettabile che ha avvelenato gli animi oltre che i corpi e la vita dei quartieri.

Ora tocca al Consiglio di Stato decidere di non decidere. Ma i soldi del recovery Plan non potrebbero servire a risarcire Taranto, dandole un futuro pulito?     

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