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Ilva, Taranto vuole liberarsi dalla madre velenosa

Si è appena concluso il maxi-processo Ambiente Svenduto, di tale rilevanza storica che prima o poi verrà riconosciuta al pari dei maxi-processi palermitani contro la mafia. Incontro così una Taranto ferita, aqquartierata tra i suoi due mari, fra la polvere color ruggine del rione Tamburi.
Gad Lerner
Fonte: Il Fatto Quotidiano - 18 giugno 2021

Ilva, camino E-312

Domenica scorsa Taranto è impazzita di gioia per la promozione della squadra rossoblu in serie C. Sconfitto il Lavello in trasferta 2 a 3 con zuccata decisiva di Santarpia negli ultimi minuti. Subito i tifosi hanno invaso le strade lanciando la prossima sfida: “Bari gallina, il derby si avvicina!”.

Il formidabile Francesco Casula, corrispondente de Il Fatto, mi ha portato a seguire la partita al centro sociale occupato di via Garibaldi, davanti a un pentolone di cozze, a una damigiana di primitivo, e sotto la scritta: “Cospirare è respirare insieme”.

Respirare, sì, ma che cosa? Si è appena concluso il maxi-processo Ambiente Svenduto, di tale rilevanza storica che prima o poi verrà riconosciuta al pari dei maxi-processi palermitani contro la mafia. Incontro così una Taranto eccitata e ferita, aqquartierata tra i suoi due mari e i suoi ponti, fra la polvere color ruggine del rione Tamburi e la pietra color sabbia della città vecchia, nello stesso tempo orribile e bellissima. E’ la maledizione dell’acciaieria, madre velenosa, a cui oggi però nessuno vuol pensare. Anzi, se nella squadra neopromossa ci mettesse dei soldi Lucia Morselli, capoazienda di ArcelorMittal - le settimane scorse s’è fatta vedere allo stadio anche se lo striscione della nuova società Acciaierie d’Italia era stato bruciato da ignoti - la porterebbero in trionfo.

Prima che si scatenasse la festa ho raggiunto a Tamburi, piazza Gesù Divin Liberatore, sotto la centralina Arpa che misura le emissioni di diossina, l’unico tarantino che ignora l’importanza della partita. Eppure è lui, l’insegnante Alessandro Marescotti, fondatore di Peacelink, ambientalista mite e tenace, il vincitore morale della impari lotta contro la retrocessione di Taranto giunta forse a una svolta.

Scoppiano i petardi, i cani randagi scappano. Per parlare ci rifugiamo negli ultimi banchi della chiesa. Sono scettico, quante volte abbiamo pensato che fosse la volta buona? Gli faccio presente che perfino al centro sociale, nonostante la durissima condanna degli ex proprietari Riva in Corte d’Assise per disastro ambientale e nonostante l’ordinanza di chiusura del Tar che deve passare al vaglio del Consiglio di Stato, sono rassegnati: “Quei maledetti altiforni non verranno mai spenti”. Marescotti non si scompone: “Se è per quello, nessuno qui credeva neanche ai 22 anni di carcere toccati a Fabio Riva. Comprovata la responsabilità dell’azienda, si sa che il particolato emesso dalla cokeria è in assoluto il più tossico e i periti hanno visto riconosciuto lo spaventoso eccesso di mortalità che provoca. La bonifica o si fa adesso o mai più, e lo sanno tutti che necessita della chiusura immediata dell’area a caldo”. Sorride amaro quando gli ripeto le frasi sdrammatizzanti dette sottovoce dai difensori dell’acciaieria su tassi d’inquinamento atmosferico e sul numero di tumori che sarebbero in media con i dati nazionali: “Fanno i furbi citando i dati d’insieme della provincia. Ma sanno benissimo che il benzo(a)pirene si concentra sui tre quartieri vicini all’acciaieria, Tamburi, Paolo VI e Borgo, tutt’ora invivibili benché la produzione sia ridotta ai minimi. Se prima si calcolava una fuoriuscita di diossina pari a 10 mila inceneritori, ora equivale a 3-400 inceneritori. Un miglioramento? Certo, ma credi che a Bologna o Milano si prenderebbero 3-400 inceneritori in mezzo alla città?”.

Aspettiamo da più di un mese che il Consiglio di Stato approvi o meno la chiusura dell’area a caldo decretata dal Tar. Ma sappiamo che tredici volte in nove anni ogni governo, da Monti a Conte, ha aggirato per decreto legge l’ordine di chiusura emesso dalla magistratura. Draghi non farà lo stesso?

Marescotti è agguerrito: “In tal caso ci rivolgeremo alla Corte dei Conti, per sperpero di denaro pubblico, dati i miliardi di perdite dell’acciaieria. Alla Commissione europea, per violazione del divieto di aiuti di Stato. All’Autorità anticorruzione, dopo gli illeciti perpetrati per addomesticare chi aveva il compito di applicare la legge”.

Vedremo come andrà a finire, ma intanto è cambiato parecchio il clima in città rispetto a quando, nel 2011, la curia insignì col premio Cataldus come “volontario dell’anno” Girolamo Archinnà, il direttore delle relazioni esterne Ilva appena condannato a 21 anni di reclusione per manipolazione dei dati e per aver elargito bustarelle. Come se non bastasse, una settimana dopo la condanna dei Riva i magistrati di Potenza hanno disposto l’arresto dell’ex Procuratore capo di Taranto, Carlo Maria Capristo, dell’avvocato Piero Amara, del top manager della consulenza Nicola Nicoletti e del poliziotto Filippo Paradiso; evidenziando che l’andazzo dei facilitatori è proseguito anche nella gestione straordinaria, dopo la caduta dei Riva. Insomma: pur di tenere operativa l’area a caldo s’è continuato a ricorrere alla corruzione.

Non potrà non tenerne conto il governo, alle prese col rompicapo del futuro dell’acciaio italiano. Sulla carta, l’ultima parola toccherebbe al Consiglio di Stato, massimo organo della giustizia amministrativa, riunitosi il 13 maggio scorso per emettere il fatale verdetto sullo spegnimento degli altiforni (che nel frattempo ha autorizzato a lavorare sospendendo la sentenza del Tar). Qui l’intreccio fra politica e magistratura è plateale: come ignorare che il presidente e il vicepresidente di Palazzo Spada sono due ex ministri, Filippo Patroni Griffi e Franco Frattini? E che il braccio destro di Draghi a Palazzo Chigi, il sottosegretario Roberto Garofoli, nato e cresciuto a Taranto, a sua volta è presidente di sezione del Consiglio di Stato? Di certo la circostanza non è sfuggita al presidente pugliese Michele Emiliano che nel maggio scorso ha pensato bene di nominare Paolo Francesco Garofoli, fratello di Roberto, capodipartimento Ambiente della Regione. Insomma, il filo diretto Roma-Bari è assicurato. Ma per fare cosa?

La lobby italiana dell’acciaio prodotto col carbone ha perso l’appoggio delle autorità locali. Come Emiliano, anche il sindaco Rinaldo Minucci conferma: “Basta altiforni dell’Ottocento, difesi dalla Federacciai solo perché gli costano meno. Noi siamo disponibili a convivere con un’Ilva più piccola e sicura, ma prima viene lo stop dell’attuale lavorazione a caldo”. Il calcolo degli ottimisti -o, se si preferisce, degli ambientalisti moderati- è che in poco più di due anni si riuscirebbe a bonificare e sostituire la cokeria con impianti a gas. “No, quel mostro va chiuso -controbatte Palma Spineto del movimento civico Liberi e Pensanti- all’Ilva green non ci crediamo”. Giocano a favore di questa tesi radicale i calcoli di sostenibilità economica: già oggi l’acciaieria maschera le sue perdite ritardando il pagamento dei fornitori. E non è in grado di reggere a lungo l’inevitabile calo dei volumi produttivi.

Anche la multinazionale indiana ArcelorMittal è tentata di approfittare di questo stallo per chiudere l’acciaieria o, comunque, per sfilarsi lasciando la patata bollente nelle mani dello Stato. Non a caso tarda a costituirsi la nuova società mista Acciaierie d’Italia, con Franco Bernabè fermo sull’uscio dopo la nomina a presidente.

Taranto resta in surplace: il Consiglio di Stato prende tempo per capire chi gestirà l’acciaieria; ma le scelte del governo dipendono dal Consiglio di Stato. E il prolungarsi dell’attesa lascia intendere che stavolta bocciare lo spegnimento degli altiforni sia molto più complicato. Tanto più che il perdurare negli anni delle emissioni proibite, e i vari episodi di corruttela, hanno indotto la Corte Costituzionale a correggere la sentenza del 2013 con cui ammetteva temporaneamente le proroghe ricorrendo a un argomento che lasciò l’amaro in bocca alla gip Patrizia Todisco, vittima di gravi intimidazioni quando firmò il sequestro degli impianti. Vi si definiva il diritto alla salute come “diritto tiranno”, qualora non controbilanciato dal diritto al lavoro.

Oggi chi lo scriverebbe? A Taranto s’è visto in azione ben altro tiranno. Certo, per rigenerarla servono molti soldi perché la crisi dell’acciaieria diffonde povertà oltre che malattie. Il tramonto del vecchio welfare me lo racconta Giovanni Guarino, trent’anni di fabbrica e poi attore di strada: “Sono diventati vecchi e scompaiono gli operai andati in pensione col calcolo retributivo e con l’incentivo all’esodo, gente che poteva arrivare a 2000 euro al mese con cui si mantenevano figli e nipoti. Ma dopo di loro?”.

Il dopo disastro ambientale è ancora tutto da inventare ma non passerà più, comunque, da quelle ciminiere infernali.

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