Latina

storie: El Salvador al tempo dei paramilitari

Carlos, il testimone scampato all'inferno

Carlos Mauricio, 58 anni, è uno dei pochi sopravvissuti agli squadroni della morte in Salvador. Dall'83 vive in esilio negli Stati uniti, e si batte per portare in giudizio i responsabili delle torture
19 agosto 2006
Geraldina Colotti
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it) - 27 agosto 2006

«Avevo visto i cadaveri dei torturati, gettati per strada a monito. Molti li conoscevo. E adesso toccava a me». Carlos Mauricio, 58 anni, è uno dei pochi sopravvissuti agli squadroni della morte in Salvador, suo paese d'origine. Dall'83 vive in esilio negli Stati uniti, insegna biologia a San Francisco, e ha fondato l'organizzazione Stop impunity, che si batte contro la tortura. Durante un giro di conferenze, è venuto al manifesto a raccontare la sua storia.
Per Carlos, allora docente di scienze naturali a El Salvador, l'incubo comincia alle 17 del 13 giugno 1983. «Sono appena tornato dal Messico, dove ho concluso un corso di specializzazione di tre anni - ricorda oggi -. Sto per cominciare la lezione, quando un uomo viene a chiedermi di spostare la macchina, che intralcia la sua. Perplesso, lo seguo all'esterno dell'edificio. La mia macchina è ben parcheggiata, perché quell'uomo mi assilla? E perché mi sta così dietro? Non faccio in tempo a pormi altre domande che vengo circondato da un piccolo esercito di individui in borghese, armati di m16. Gli squadroni della morte. Tento di reagire, chiamo aiuto, ma vengo picchiato e sopraffatto». Una benda sugli occhi, le mani dietro la schiena, faccia a terra, sul pavimento di una macchina senza targa che riparte sgommando». «Dopo circa 4 ore - riprende Carlos - arriviamo in un luogo segreto. Sono sempre bendato e così resterò per tutto il tempo. Mi fanno scendere e mi spingono per un corridoio stretto. Cammino su corpi che non vedo. Qualcuno si lamenta. Mi ammanettano a un tubo con le braccia in alto. Prima che sia il mio turno, ascolto lo strazio degli altri: elettrochoc, soffocamenti, donne violentate...».
Un campionario di orrori a cui i corpi militari si dedicano da tempo con macabra sollecitudine. Già nel 1978, la Commissione interamericana dei diritti umani ha dovuto constatare gli effetti della sanguinosa repressione dell'allora governo Romero. Si è alla vigilia del colpo di stato che, il 15 ottobre 1979, porta al potere una giunta civico-militare: per gli Usa, si tratta di impedire un processo analogo a quello del Nicaragua; per il blocco di forze democratiche e sindacali che lo appoggia, sull'onda dei movimenti di massa, sembra il male minore. Ma dopo pochi mesi, al posto della riforma agraria, torna il pugno di ferro in un paese in cui 3 milioni di persone vivono con meno di 10 dollari al mese. Dal 1 gennaio dell'80 all'anno successivo, la Commissione per i diritti umani registra oltre 8.000 omicidi: contadini, operai, studenti, insegnanti e religiosi. Monsignor Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, viene ucciso mentre dice messa. A sparare è il capitano dell'esercito Alvàro Saravìa, membro degli squadroni della morte, fondati dal maggiore Roberto D'Abuisson su mandato della Cia. Una risoluzione dell'Onu vieta agli stati di fornire ogni tipo di aiuto militare alla giunta. Divieto ignorato da Israele e dagli Stati uniti che, nel 1981, forniscono assistenza bellica per 11,5 milioni di dollari: quasi il 70% degli aiuti militari concessi dal 1950. E i massacri continuano. Il governo del democristiano Napoleon Duarte ha già dato mano libera ai torturatori, ma nell'82, con la nascita dell'Alleanza repubblicana nazionalista (Arena), il partito di estrema destra fondato da D'Abuisson (ancora oggi al governo), gli omicidi premeditati si moltiplicano. Aumenta il numero degli scomparsi. Anche Carlos Mauricio sta per diventare un desaparecido.
«Ogni notte - racconta ora - vengono a torturarmi. Sono almeno quattro. Si alternano. Mi accusano di essere un guerrigliero, addestrato a Cuba. Non ne so niente, ma dopo tre notti d'inferno ammetto di essere stato a Cuba. Ma allora il torturatore vuole sapere dove si trova il campo e io, che non sono mai stato a Cuba, dico che non lo so. E loro riprendono. Per nove giorni. Penso: sono morto, e i morti non parlano. Così resisto». Ma intanto, all'esterno, della sparizione di Carlos, noto esponente sindacale, parlano i giornali. Cresce la mobilitazione. Si muove anche la Croce rossa internazionale. Lui non lo sa. «A un certo punto - continua - mi trasferiscono dalla camera di tortura a una cella comune insieme ad altri prigionieri. Quando mi tolgono la benda, mi rendo conto di trovarmi nell'edificio della polizia nazionale e che i miei torturatori sono poliziotti. Faccio esperienza del terrorismo di stato: col pretesto di combattere la guerriglia, si uccidono studenti, insegnanti, medici, religiosi». Ma non è ancora finita. «Mi trasferiscono in una cella minuscola, dalle pareti completamente ricoperte di scarafaggi. Per terra scorre acqua mista a liquame. Sono al capolinea, penso. Invece, cinque ore dopo, mi riportano nella cella di prima e mi dicono che sarò liberato. Se ne vanno. Tornano la sera dopo e io mi dico: stavolta mi ammazzano. E invece no, mi fanno uscire: hai una fortuna sfacciata, sbotta uno dei miei rapitori. Vattene dal Salvador, se vuoi rimanere in vita». Dopo, Carlos saprà che deve la vita alla Croce Rossa, piombata senza preavviso sul luogo di tortura. Straziato nel corpo e nello spirito, parte allora per gli Stati uniti, dove risiede una sorella. Prende altre due lauree, insegna. «Cerco di avere una vita normale - ricorda adesso - ma non mi rendo conto che covo un trauma terribile, che infatti esplode più tardi: crisi di pianto, panico, rabbie improvvise, sensi di colpa per essere sopravvissuto... qualcosa mi si è rotto dentro e non riesco a parlarne».
Intanto, il generale Garcia, responsabile delle torture che Mauricio ha subito e di molteplici violazioni dei diritti umani, ha chiesto e ottenuto asilo politico dagli Stati uniti nel 1987. Ora vive da nababbo in Florida, insieme a numerosi altri torturatori. A Carlos, che ha chiesto asilo nell'83, hanno invece risposto picche. E nell'89, il dolore si rinnova. «Un commando dell'esercito salvadoregno, composto da 26 ufficiali, uccide sei preti gesuiti, una domestica e sua figlia adolescente - racconta ancora il docente -. La commissione d'inchiesta appurerà che 19 di quei soldati si sono laureati alla Scuola delle Americhe, che ha una lunga storia di repressione in Salvador. Ha formato la maggior parte dei dittatori di tutta l'America latina. Ho deciso che non potevo più tacere. Lo dovevo alle 75.000 vittime che non possono più testimoniare».
E dunque, Carlos cerca altri sopravvissuti, segue l'attività di Soa Watch, l'associazione che si batte per la chiusura della scuola di tortura nordamericana. Fonda l'associazione Stop impunity, che si propone di portare in giudizio i torturatori salvadoregni, colombiani, cileni, argentini, onduregni, haitiani, guatemaltechi: tutti usciti dalla Soa. Un precedente c'è già: un avvocato nordamericano, fratello di una suora massacrata in Salvador, è riuscito a portare in giudizio gli aguzzini. «Ci siamo basati sulla legge Alien tort claims, firmata da Benjamin Franklin e Thomas Jefferson agli albori degli Usa - spiega adesso Carlos -, inizialmente era nata contro i pirati ma noialtri sopravvissuti l'abbiamo scoperta e la Corte federale ha accettato di applicarla contro i generali José Guillermo Garcia e Carlos Eugenio Vides Casanova». I militari vengono ritenuti colpevoli di sequestro e tortura. «Il processo - precisa l'attivista - si chiama 'Romagosa contro Garcia' perché, oltre a me, ci sono altre due persone: Juan Romagosa che è un medico, sequestrato e torturato dalla guardia nazionale nel 1980. Era un chirurgo che curava i poveri e per questo gli hanno sparato nel polso per impedirgli di tornare a operare. Non ha più potuto usare le mani. La seconda persona si chiama Meri Gonzales, una catechista. Quando l'hanno presa, nel 1980, era incinta di otto mesi. L'hanno torturata orribilmente, è viva solo perché i militari pensavano di averla uccisa e l'hanno gettata insieme ai cadaveri».
Per dire «stop all'impunità», Carlos si reca ogni anno a protestare davanti a Fort Benning. «Ho seguito l'esempio di Roy Bourgeois - dice - . All'inizio lui era solo, ma l'anno scorso eravamo in 22.000. E poi, stiamo facendo il giro del Latinoamerica, per chiedere ai presidenti di non mandare più i soldati in quella scuola. Già 5 paesi hanno accettato: per primo il Venezuela, e poi Bolivia, Brasile, Argentina, Uruguay. Nel mese di agosto andremo in Cile, Perù, Ecuador». E dopo partirà una carovana che, per tre settimane, attraverserà orizzontalmente gli Stati uniti. Da Los Angeles a Fort Benning, Carlos spiegherà che la tortura è un crimine contro l'umanità, e che gli orrori di Abu Ghraib o della Colombia «che ha sostituito il Salvador nelle statistiche dei massacri» vengono dagli stessi manuali e dalla stessa Scuola, e che è sempre in Florida che gli aguzzini trovano rifugio, in completa impunità. Oltretutto, con le leggi antiterrorismo varate da Bush, è ormai impossibile accedere alle informazioni come prima. «Ma intanto abbiamo portato in giudizio anche il capitano Aravìa, responsabile dell'assassinio di monsignor Romero - dice ancora Carlos - e il governo salvadoregno non è contento: perché il defunto Roberto D'Aguisson che ordinò l'omicidio, è il fondatore degli squadroni della morte in Salvador, ma anche del partito Arena attualmente ancora al potere».
Cosa è cambiato allora in Salvador, dalla firma degli accordi di pace del 1992? «Le 14 famiglie che possedevano il paese, oggi si sono ridotte a 5 - afferma l'attivista -. Il governo non ha rispettato gli accordi di pace, ma in compenso ha ingabbiato l'opposizione nel gioco istituzionale. Qualche settimana fa ci sono stati dei morti negli scontri di piazza. C'è una forte disgregazione sociale, la violenza è altissima. La situazione è sempre più grave». Quali scenari immaginare, allora? «Possiamo vederla in due modi: o chiedere di diventare una colonia nordamericana come Portorico, visto il numero di salvadoregni che ogni anno fuggono verso gli Stati uniti, oppure ricostruire un grande movimento di massa come quello del 1980 - dice Carlos - Sono i movimenti di massa che hanno portato al potere Chavez o Morales, i partiti politici tradizionali fanno finito il loro tempo. Speriamo che un vento nuovo covi sotto le ceneri anche da noi».

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