La chimera del pluralismo
Le frequenze sono un bene pubblico e non proprietà privata di chi le occupa, come invece suggerisce l'anomalia italiana. Secondo gli esperti la nuova legge mette in evidenza questa tendenza e limita l'ingresso di soggetti terzi nel mercato televisivo
Pluralismo. La parola più associata al digitale terrestre, 
  almeno fino a quando non è spuntata all'orizzonte la proposta Gasparri sul riassetto 
  del sistema radiotelevisivo, che a giorni dovrebbe diventare legge. Da allora 
  il digitale terrestre è diventato sinonimo di «salva-Rete 4», strumento tecnologico 
  in mano alla politica per garantire la sopravvivenza del canale che, secondo 
  i tetti antitrust, dovrebbe per eccedenza proprietaria cedere la propria frequenza 
  terrestre e trasferirsi sul satellite. A meno che non si verifichi un effettivo 
  allargamento dell'offerta televisiva nazionale in chiaro: e qui entra in gioco 
  la tecnologia digitale terrestre, con le sue decantate doti di moltiplicare 
  i canali via etere, trasmettendone cinque dove prima era disponibile uno e aumentando 
  il numero dei soggetti sul mercato televisivo. È così che una tecnologia - in 
  sé neutra - può diventare una cosa e il suo contrario, cioè passare da elemento 
  di allargamento dell'offerta televisiva e della libertà d'espressione, a strumento 
  in grado di garantire la permanenza di un oligopolio. La questione appare a 
  dir poco intricata e, per sollevarla un minimo dalle polemiche alla moda sulla 
  sorte di Rete 4, memori degli anni in cui si decantavano le «magnifiche sorti 
  e progressive» della tecnologia digitale terrestre, gratuita, universale, accessibile 
  a tutti, capace di aprire le porte del mercato televisivo ai cosiddetti nuovi 
  player, abbiamo chiesto un parere a esperti che questa materia la frequentano 
  da un po'. Come Bruno Somalvico, autore di due testi fondamentali per capire 
  le mutazioni della tv digitale (vedi box), e coordinatore del gruppo sul digitale 
  terrestre del Forum permanente delle comunicazioni (istituito dallo scorso governo 
  e sciolto con l'insediamento di Gasparri), il cui lavoro fu di supporto alla 
  stesura della legge 66 del 2001 (vedi box). «Le prime trasmissioni in tecnica 
  digitale terrestre partirono attorno al 1998 nel Regno unito e in Svezia. A 
  quell'epoca vedevamo nel digitale terrestre la grande occasione per allargare 
  a tutta la popolazione, in una logica di accesso universale opposta a quella 
  della pay tv, le offerte televisive multicanale e la multimedialità». Somalvico 
  spiega il percorso su cui lavorò il Forum, e alcuni ragionamenti - come quello 
  sulla data di spegnimento delle trasmissioni analogiche - che approdarono nella 
  legge 66.
  
  «Nel 2001 potevamo vedere il 2006 come data simbolica di spegnimento delle trasmissioni 
  analogiche: era un punto non d'arrivo, ma di partenza di una nuova stagione 
  televisiva. E comunque la data di switch off andava supportata da una 
  serie di politiche di appetibilità della nuova offerta, di promozione commerciale 
  e di misure a favore del consumatore, soprattutto nella fase finale, per le 
  fasce `deboli' della popolazione, cioè chi trova più difficile, per ragioni 
  socio-economiche, passare a una nuova tecnologia. Un ruolo centrale, in questo 
  progetto, andava assegnato al servizio pubblico, che doveva fare da apripista 
  per il nuovo sistema, non soltanto in termini tecnologici, quanto piuttosto 
  per l'adozione di nuove offerte e per la sperimentazione di linguaggi e contenuti. 
  Il servizio pubblico doveva, fra le altre cose, traghettare senza traumi il 
  pubblico generalista nell'universo della multimedialità». 
  
  
  
  L'anomalia italiana
  
  Date le premesse, dove sta allora «l'inghippo»? Somalvico lo spiega con chiarezza: 
  la legge 66 prevede il trading delle frequenze, ovvero una fase in cui 
  tutti coloro che possiedono concessioni per le trasmissioni analogiche possono 
  sperimentare la tecnica digitale terrestre sulle proprie reti, prima che si 
  giunga alla fase finale dello switch off. «Il vizio di fondo consiste 
  nel permettere a un soggetto concessionario di una frequenza di esserne di fatto 
  il proprietario, mentre la frequenza dovrebbe essere un bene pubblico, non una 
  proprietà privata». Mentre il passaggio al digitale terrestre veniva utilizzato 
  da altri paesi europei per razionalizzare l'uso delle frequenze analogiche, 
  in Italia persisteva la solita anomalia da far west, cioè chi era arrivato prima, 
  nello scenario analogico, a occupare di fatto le frequenze - vedi Mediaset, 
  ma anche Rai, che ne è concessionaria, non proprietaria -, di diritto le «possiede», 
  anche nel nuovo ambiente digitale. «Per sperimentare in tecnica digitale terrestre 
  bisogna necessariamente avere una concessione analogica. L'assenza di frequenze 
  libere nel nostro paese impedisce in questa prima fase sperimentale l'ingresso 
  di soggetti terzi, che siano diversi da quelli tuttora `proprietari' delle frequenze, 
  con il rischio di estendere il duopolio analogico al digitale. Il paradosso 
  è che questi soggetti potranno di fatto entrare nel mercato televisivo digitale 
  terrestre solo quando saranno liberate le vecchie frequenze analogiche, cioè 
  alla data di switch off», precisa Somalvico. A questo punto ai profani 
  viene un dubbio, sollevato dai martellamenti pubblicitari sull'offerta dei nuovi 
  canali disponibili con il digitale terrestre: Class news, Coming soon television, 
  Vj television, canali che non sono di proprietà né Mediaset né Rai. Anche Bbc 
  world, visibile sul multiplex digitale terrestre di Mediaset, non è certo di 
  sua proprietà. Non sono questi soggetti «terzi», entrati di diritto sull'etere 
  italiano grazie al digitale terrestre, in direzione del tanto anelato pluralismo? 
  Allora il trading delle frequenze non impedisce nuovi ingressi sul mercato 
  del digitale terrestre? Giriamo il dubbio all'ingegner Guido Vannucchi, docente 
  di Reti e sistemi multimediali al Politecnico di Milano, nonché ex vice-direttore 
  generale della Rai dal 1996 al 1998, al tempo dei primi dibattiti sul digitale 
  terrestre.
  
  «Il trading impedisce a nuovi soggetti di entrare sul mercato del digitale 
  terrestre come gestori dell'infrastruttura di rete. Mentre è possibile, al contrario, 
  entrare come editori di contenuti, poiché sia la legge che il regolamento dell'Autorithy 
  della fase sperimentale prevedevano che, a partire dal secondo multiplex digitale 
  gli operatori di rete debbano cedere il 40% della loro capacità di diffusione 
  ad altri». La questione pare complicarsi, ma in realtà è tutto molto chiaro. 
  Chi era concessionario delle frequenze analogiche oggi può sperimentare in tecnica 
  digitale. Però, miracolo del digitale, lo spazio per la trasmissione aumenta 
  esponenzialmente. Per cui, dove la Rai aveva una frequenza analogica per un 
  canale, oggi si ritrova un multiplex, una sorta di bouquet di canali. Ovvero 
  molto più spazio a disposizione, di cui però, come ricordava l'ingegner Vannucchi, 
  va ceduta una parte a terzi per garantire pluralismo e concorrenza. Ma, nel 
  caso di Rai o Mediaset o La7, l'operatore di rete (carrier) e il fornitore 
  di contenuti coincidono; mentre tutti gli altri nuovi entranti sono soltanto 
  editori che devono necessariamente trovare qualcuno dei suddetti che li «ospiti» 
  nel proprio multiplex, pena l'esclusione dalla torta del digitale terrestre. 
  
  
  
  
  A confronto con gli altri paesi europei
  
  Confrontiamo la situazione italiana con quella degli altri paesi europei. Giacomo 
  Mazzone, dell'Audit strategica dell'Ebu (noto anche come Uer), è la persona 
  adatta: l'organismo che raggruppa i broadcaster pubblici europei insieme a alcuni 
  privati, si è occupato molto del digitale terrestre monitorando, fra le altre 
  cose, la situazione nei diversi paesi e il loro approccio alla Dtt (digital 
  terrestrial television). Mazzone sottolinea la peculiarità del modello inglese, 
  a oggi l'unico di successo sul mercato digitale europeo: un modello che ha le 
  caratteristiche di essere gratuito, trainato da un'offerta generalista, con 
  un elemento forte rappresentato dai nuovi canali Bbc ma con almeno 40 concorrenti 
  nello stesso bouquet. «Fattore decisivo per ottenere questa concorrenza è stata 
  la separazione fra carrier e fornitore di contenuti. Il legislatore inglese 
  è partito dal principio che il broadcaster non ha alcun interesse a allargare 
  la concorrenza, che gli sottrae fette del mercato pubblicitario. Nel caso della 
  Bbc, finanziata esclusivamente dal canone, questo problema non si pone; ma per 
  tutti gli operatori privati, o per quelli il cui finanziamento è misto canone-pubblicità, 
  la questione andrebbe considerata. Nel Regno Unito comunque è stata imposta 
  la separazione fra carrier e fornitore dei contenuti, e per legge 
  la Bbc ha dovuto vendere gli impianti di trasmissione», spiega Mazzone. E precisa: 
  «Con questa misura si ottengono due risultati. Primo, viene creato l'interesse 
  `concorrente' del carrier, che più segnali trasporta e più guadagna. 
  Secondo, si genera un interesse economico perché il meccanismo funzioni e alimenti 
  l'aumento delle offerte». «In Italia, la separazione fra carrier e fornitore 
  di contenuto non è avvenuta, già nella legge del governo precedente. La misura 
  era attenuata dal fatto che il 40% della capacità trasmissiva doveva essere 
  ceduta a terzi. Più tardi, l'Authority stabilì che questi soggetti terzi ospitati 
  sui multiplex fossero scelti dagli stessi `proprietari' del multiplex».
  
  Quindi: i canali che stanno sul multiplex Mediaset li ha scelti Mediaset. Portare 
  Bbc world fa «immagine» per Mediaset, ma certo non le fa concorrenza una rete 
  di approfondimento e news, per giunta in lingua inglese. Stesso discorso per 
  Coming soon Tv, Class news, canali tematici di qualità ma non reti generaliste 
  in grado di competere con Canale 5, Italia 1 e Rete 4. Sul multiplex Rai bisognerà 
  aspettare per vedere chi sono i soggetti «ospitati» e capire se porteranno un'offerta 
  in grado di fare concorrenza alla tv pubblica nostrana. 
  
  
  
  Chi fornisce i contenuti e chi le infastrutture
  
  Torniamo all'ingegner Vannucchi, per capire come valutare dal punto di vista 
  tecnologico la mancata separazione fra il carrier e il fornitore di contenuti. 
  «È stato uno dei più grandi errori storici che l'Italia ha commesso», risponde. 
  «La cosa si può attenuare obbligando a avere titoli societari o conti separati 
  fra gestori delle infrastrutture e fornitori di contenuti, come del resto avviene 
  sia nel caso di Raiway che di Mediaset. Eppure, rimane il legame `incestuoso' 
  fra il datore delle infrastrutture e il fornitore dei programmi. In questo meccanismo 
  il contenuto deve trovare l'infrastruttura che lo accolga, ma è chiaro che, 
  se quest'infrastruttura è controllata da un editore concorrente, sarà facile 
  trovare alcune barriere pretestuose all'accesso», conclude Vannucchi.
  
  E il pluralismo? «Il pluralismo potrebbe aumentare molto di più rispetto a quanto 
  aumenterà di fatto», commenta Giuseppe Richeri, docente di Strategia dei media 
  presso l'università di Lugano. «Ci saranno nuovi canali, ma questi verranno 
  selezionati da chi già opera sul mercato, e non in base alla loro capacità economica 
  o per il grado di innovazione», sottolinea.
  
  La conclusione è però molto più amara: perché la sinistra italiana, dopo aver 
  gettato, con il governo precedente, le premesse per questa situazione, insiste 
  a trattare il digitale terrestre come una questione esclusivamente legata al 
  destino di Rete 4 (e, ricordiamo, anche al fatto di non privare Raitre della 
  pubblicità). Trovandosi, paradossalmente, a combattere una battaglia contro 
  un'innovazione tecnologica a suo tempo spalleggiata. E, soprattutto, a interpretare 
  il pluralismo come una semplice questione quantitativa piuttosto che qualitativa. 
  Siamo sicuri, date le premesse, che più soggetti entreranno nel business del 
  digitale terrestre, più sarà garantita la pluralità di espressioni e di offerte 
  di mercato? Dubitare umano è. (2/ continua) 
  
  
LIBRI SUL DIGITALE TERRESTRE 
  La tv diventa digitale, (a cura di Edoardo Fleischner 
  e Bruno Somalvico, Franco Angeli editore, 2002), prende spunto dal lavoro del 
  Gruppo «digitale terrestre» del Forum permanente delle comunicazioni 
  per tracciare il quadro della complessa migrazione al digitale. Il libro descrive 
  in modo dettagliato, con contributi di esperti da vari settori - dall'ingegneristico 
  a quello dell'analisi sui media -, le criticità della transizione, analizzando 
  il nuovo mercato televisivo, il contesto tecnologico (e l'opzione interattiva), 
  i modelli adottati dalla Spagna e dalla Gran Bretagna, per chiudere con una 
  riflessione sul calendario di switch off del segnale analogico. Non solo 
  digitale terrestre: per un approfondimento su altre tecnologie di trasmissione 
  e una discussione critica sulla convergenza e i nuovi prodotti televisivi sul 
  mercato globale, segnaliamo La nuova Babele elettronica, acutissimo saggio 
  di Bruno Solmavico e Bino Olivi (edito dal Il Mulino, 2003). E per orientarsi 
  nella palude dei colossi mediali europei e capire se veramente c'è spazio 
  per nuovi soggetti sui mercati televisivi, c'è il documentatissimo Mercanti 
  di bi(sogni). Politica ed economia dei gruppi mediali europei, di Angelo 
  Zaccone Teodosi, Flavia Barca e Francesco Medolago Albani (Isicult), edito da 
  Sperling & Kupfer in collaborazione con la direzione marketing strategico Rti 
  Mediaset. La fine dei mass media, di Paolo Ferri (Guerini & Associati, 
  2004), è invece un saggio che analizza le trasformazioni dell'industria 
  televisiva alla luce dei cambiamenti tecnologici del digitale, ipotizzando il 
  tramonto dei media generalisti alla presa con il maldestro tentativo di sposare 
  l'interattività. 
LA LEGGE 66 DEL 2001 
  La legge 66 del 2001 è la prima normativa che regolamenta 
  la transizione verso la televisione digitale terrestre. I punti fondamentali 
  del testo riguardano: l'introduzione del 31 dicembre 2006 come data per lo spegnimento 
  definitivo del segnale analogico (switch off); il «trading» 
  delle frequenze, fermo restando che le acquisizioni vengano impiegate esclusivamente 
  per la diffusione sperimentale in tecnica digitale; l'obbligo per i concessionari 
  di due o più frequenze analogiche di portare, per il 40% della propria 
  rete trasmissiva, segnali di soggetti terzi. La legge delega al Regolamento 
  sul digitale dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni la funzione 
  di regolamentare le licenze e le autorizzazioni, stabilendo che tutte le successive 
  pianificazioni delle frequenze avvengano in tecnica digitale.
  Lo spirito della legge 66 è di portare avanti una migrazione al digitale 
  terrestre graduale, prima di giungere alla cessazione definitiva delle trasmissioni 
  analogiche, e di compiere questo passaggio affidando la prima fase - quella 
  sperimentale - al mercato, attraverso la misura del «trading», la 
  compravendita delle frequenze: la misura più controversa della normativa, 
  poiché per molti ha segnato lo sviluppo del digitale terrestre in modo 
  non omogeneo, ma seguendo uno schema «a macchia di leopardo».
  Il Regolamento dell'Autorità, d'altra parte, ha approfondito alcuni elementi 
  della legge 66, disciplinando gli aspetti essenziali per il passaggio in atto 
  e sostituendo le «concessioni» rilasciate in ambiente analogico con 
  un regime di «autorizzazioni» a trasmettere, della durata di 12 anni. 
  
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