Il caso va archiviato
La decisione presa in Gran Bretagna di negare al fondatore di Wikileaks, Julian Assange, il ricorso alla Corte Suprema nella controversia sulla sua estradizione negli Usa non segna ancora la conclusione della querelle giudiziaria. Tuttavia, per il 50enne, è un duro colpo.
Con essa, infatti, le giudici e i giudici supremi sottraggono terreno alla linea argomentativa più proficua condotta da Assange negli ultimi due anni: ovvero se fosse estradato, la sua salute mentale ne risulterebbe talmente compromessa da rendere verosimile un suicidio durante la detenzione negli Usa.
Su questa base, nel gennaio del 2021, una sentenza di primo grado stabilì che Assange non andasse estradato. A quel punto, gli Stati Uniti dettero a più riprese garanzie che sarebbe stato sottoposto a un trattamento sicuro e umano, dopodiché lo scorso dicembre l’High Court ha revocato la decisione. Il tentativo di Assange di far giudicare la stessa argomentazione dinanzi alla Supreme Court, con il rifiuto di quest’ultima di trattare il caso per mancanza di basi legali, è fallito.
Le cose si mettono male per Assange, ma forse è un bene per tutti i valori e i principi connessi con il caso. Benché, difatti, in un primo momento la decisione del tribunale del gennaio 2021 contro l’estradizione abbia fatto tirare un sospiro di sollievo, le ragioni in realtà erano completamente erronee. Ora, invece, senza ombra di dubbio la difesa di Assange ritornerà solo su quegli argomenti precedentemente avanzati e naufragati nei primi gradi di giudizio che stigmatizzano i 18 capi d’accusa mossi dagli Stati Uniti come un tentativo di natura politica di silenziare un pubblicista scomodo.
Il caso torni al proprio posto
Con ciò il caso tornerebbe al posto che gli appartiene: al dibattito politico sulla libertà di stampa e al suo perimetro. Promemoria: al centro della questione c’è la pubblicazione da parte di Wikileaks di documenti riservati degli Stati Uniti risalenti al 2010 e 2011 che provano crimini di guerra commessi dagli stessi e dalle forze di sicurezza irachene del tempo contro la popolazione civile. A Wikileaks i documenti furono passati da Chelsea Manning – che per questo motivo dal 2010 finì in carcere e alla quale, infine, nel 2017, fu concessa la grazia dall’allora presidente, Barack Obama.
Il procedimento contro Assange, invece, a cui gli Usa non rimproverano solo di aver reso pubblici i documenti – e in tal modo di aver messo in pericolo vite umane e la sicurezza nazionale –, ma anche di aver aiutato attivamente Manning a trafugare i dati, non è mai stato archiviato. Chelsea Manning è perfino tornata in prigione a fini coercitivi, per estorcerle dichiarazioni incriminanti su Assange.
Il procedimento va archiviato
È un caso che la notizia della decisione dei giudici contro Assange giunga contemporaneamente al video della protesta anti-guerra della redattrice Marina Ovsyannikova, inscenata sul primo canale nazionale russo.
Per sei secondi, in diretta tv, è riuscita a esporre un cartello di protesta contro la guerra, dopodiché è stata oscurata e anche lei arrestata.
A ragione i governi occidentali, le organizzazioni umanitarie e gli organi d'informazione serrano le file nel condannare la propaganda statale russa e il bavaglio alla libertà dei media e d’informazione. L’estremo contenimento delle notizie sulla guerra di aggressione all’Ucraina, che non va neppure chiamata «guerra», è però solo l’esacerbazione dell'uniformazione dei media che è in atto da anni.
Eppure quanto più persuasive potrebbero essere le argomentazioni dell’Occidente, se nel frattempo chi ha reso pubblici i più grandi crimini di guerra della potenza egemonica di questo stesso Occidente, non rischiasse 175 anni di reclusione. Siamo d’accordo: il procedimento contro Assange va archiviato. Va finalmente rimesso in libertà, e subito.
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