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La fabbrica del vento

Il futuro nasce a Taranto, dove si producono gli impianti eolici per alimentare l'Italia
12 aprile 2007
Antonio Massari

Oltre il cancello, un branco di squali bianchi. Alle spalle, fumi incessanti. La grande acciaieria Ilva: ferro e fiamme. Ventiquattro ore su ventiquattro. Altiforni. Vecchie ciminiere affumicate. È l'industria della porta accanto: a due passi dal rione Tamburi. Ma dietro l'antico acquedotto romano a Taranto c'è tutta un'altra storia. Da raccontare. Niente a che fare con fumi e veleni.

Accarezziamo lo squalo: "Questa è una pala eolica", ci informano. La sua pinna curvata s'insinua nel vento come un rasoio. L'estremità: spessa un millimetro, non di più. La mano scivola sul corpo affusolato: fibra di vetro e resina. Venticinque metri. Due tonnellate di leggerezza.

Questa è l'unica fabbrica, in Italia, che produce impianti eolici. Pale e conchiglie "Per favore: non chiamateli mulini a vento", si raccomandano alla Vestas Italia, società del gruppo danese che - con il 35 per cento del mercato - è il maggiore produttore mondiale.

A Taranto i dipendenti sono 600 (tutti italiani), ma con l'indotto si arriva a contarne 3.700. Da qui si esporta in Turchia, nei Balcani, nel Nord Africa, nel Medio Oriente. Persino in Cina. La metà delle turbine installate in Italia arriva da questi capannoni.

"Una realtà di cui andiamo fieri", sostiene il direttore generale, Rainer Kanan, "soprattutto perché collocata al Sud, in quella parte del nostro Paese che non può certo aspettarsi rosee prospettive occupazionali". Senza contare che la produzione è destinata a salire. Entro il 2010, le direttive europee impongono infatti di elevare al 25 per cento la produzione di energia da fonti rinnovabili. In pole position, per tecnologia e capacità produttive, l'energia del vento.

Ci accompagnano nel primo capannone, quello delle pale eoliche appunto, dove tutto comincia da un mantello rossastro di resina impregnato di fibra di vetro. La lunga pellicola si srotola sui macchinari, che la tagliano su misura, come fosse un abito di sartoria. Poi una "radice" tondeggiante viene fissata a mezz'aria: al centro, lo scheletro d'acciaio che si allunga per una ventina di metri e intorno al quale si costruisce l'anima della pala. Passa il "mandrino", una specie di fuso meccanico. Va e viene, legando il tutto con fili colorati, finché l'anima può essere riscaldata. Il suo forno è un impermeabile grigio nel quale tutto si salda. L'anima è pronta: la chiamano il "longherone". Si passa alla seconda fase: quella dei gusci che la ricoprono. In inglese li chiamano shell, conchiglie, nome più che evocativo. I due lunghi stampi concavi, separati e paralleli, scorrono fino a unirsi. Le cerniere laterali s'incastrano, i gusci si congiungono, fino a chiudersi, lentamente: come una conchiglia, appunto. Raccolgono all'interno il longherone, si saldano in un sottovuoto d'aria caldissima. La colla liquida scivola sulle estremità. Aperta la conchiglia, la pala è quasi pronta, e non resta che limare la colla in eccesso. Sul dorso, un minuscolo bottone d'acciaio. "È il parafulmine", ci spiegano. "Se un lampo colpisce la pala, l'energia viene scaricata a terra". Operazioni successive: verniciare, essiccare, pesare. Il colore: una tonalità di grigio leggero. Perché non rimbalzino i raggi del sole.

E perché "il cielo è più grigio che azzurro", come amano ripeterci mentre avviano questa mimesi tra le nuvole. Quando tutto è finito scorriamo la pala con le mani: liscia e affilata. Altra mimesi. Acustica, questa volta, perché "basta una piccola imperfezione ad aumentare il suono". Questo vuole la tecnologia: rasoiate nel vento, sfuggenti alla vista e impercettibili all'udito. Ma quanto vento è necessario perché una pala si muova? Poco. Basta una brezza leggera. Eppure siamo davanti a un siluro da 25 metri e 2 tonnellate. Per ogni rotore ce ne vogliono tre (e il peso sale a 6 tonnellate). Il mozzo, che ne pesa 10, sarà collegato a una turbina da 20mila chili. Risultato: 32 tonnellate, poggiate su una torre, tra i quaranta e gli ottanta metri d'altezza. Incredibile: per muovere tutto questo basta che il vento spiri a soli quattro metri al secondo. Energia pura. Tecnologia avanzata. Logica semplice. Basta guardare la produzione della turbina V52, prodotta qui a Taranto e tarata per erogare 850 kw/ora. Dal vento alla lampadina Ecco la logica: le tre pale si muovono, compiono un giro e roteano gli ingranaggi della turbina. Energia meccanica. In un metro tutto si trasforma, attraverso un moltiplicatore di giri, che segue lo stesso meccanismo della moltiplica di una bicicletta: il diametro diminuisce, i giri aumentano, e innescano il generatore elettrico. Ci siamo: il vento muove la parte meccanica che trasforma tutto in energia elettrica. Il gioco è fatto. Un lungo cavo scende dalla torre e si allaccia alla rete: il flusso di energia eolica si mescola a quello generato dalle altre fonti. I gestori possono utilizzarla.

E se a Taranto c'è l'unica azienda che produce impianti, in Puglia c'è anche la maggiore produzione di energia eolica: 460 megawatt accumulati fino al 31 dicembre 2006, 120 solo nell'ultimo anno. Al secondo posto la Sicilia (452), seguono Campania (417) e Sardegna (346). Il motivo è stampato su una strana mappa, l'atlante eolico, che misura la media annuale del vento. Al Sud tira più vento che al Nord. La media, fino al centro Italia, supera raramente i quattro o cinque metri orari. Il vortice d'Italia Nel Subappennino dauno, ovvero la cerniera montuosa tra Puglia, Campania e Basilicata, la media raddoppia. Il più grande parco eolico d'Italia, in teoria. Ma anche in pratica. Tanto che la giunta regionale, lo scorso anno, ha deciso di varare una moratoria, per regolamentare il mercato. Archiviata la moratoria, però, il regolamento predisposto dall'assessore all'Ambiente, Michele Losappio, prevede l'installazione di nuovi impianti. A Manfredonia potrebbe nascere il primo parco eolico off shore, per il quale la società spagnola Gamesa, già da un anno, ha avviato le analisi del vento.

"Siamo i primi in Italia per produzione di energia eolica", rivendica il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola. "E vogliamo consolidare questo primato. Puntiamo a intraprendere un percorso di grande innovazione e ricerca tecnologica, anche per la bioedilizia e l'autoproduzione energetica, soprattutto nelle periferie, con l'uso di tegole fotovoltaiche.

La questione ambientale è una priorità: stiamo negoziando con Enel ed Enipower per le loro centrali a carbone. Chiediamo la riduzione di anidride carbonica e un abbattimento della produzione, nei prossimi dieci anni, del 25 per cento". Già, l'inquinamento: in media, gli impianti tradizionali liberano nell'aria 650 grammi di anidride carbonica per ogni kwh. Una turbina eolica - ovviamente - ne immette zero.

"Il nostro messaggio", conclude Vendola, "è talmente forte che stiamo ricevendo, dai produttori di energie rinnovabili, un'importante pressione internazionale". Continua e conferma Losappio: "Da novembre a oggi le richieste di nuovi impianti eolici toccano quota diecimila MW: potremmo soddisfare l'intero fabbisogno italiano derivante da fonti alternative. Puntiamo a una produzione di cinquemila MW e in proposito agiremo con rigore: gli impianti non devono infatti contrastare con agricoltura, paesaggio e aree protette". Come in un concerto.

E torniamo ai parchi eolici pugliesi. Ora li guardiamo da Taranto, attraverso un monitor, che esamina le turbine. A una a una. Orientamento verso il vento, energia prodotta in tempo reale, eventuali disfunzioni: l'intera area mediterranea della Vestas è controllata da Saragozza, in Spagna. È questa l'ultima magia: tutto il parco eolico, una trentina di elementi in tutto, può essere regolato attraverso il computer. Come fosse un maestro d'orchestra, l'ingegnere impartisce comandi a ogni singola turbina. E ogni turbina si muove. Come un girasole alla ricerca del vento. Le pale mutano l'inclinazione, per raccogliere al meglio l'energia. E per raggiungere - tutte insieme, come in un concerto - la più completa armonia.

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