Taranto marcia contro il «mostro»: Non vogliamo più quest’aria malata
Sono in tanti le mamme e i papà dietro i bambini che dicono «no» all'inquinamento. Sono dietro gli striscioni preparati a scuola, dietro la voglia di cambiamento dei loro figli. Ma dovrebbero, potrebbero essere ancora di più. Piccola e dolce quanto determinata ed austera, i lunghi capelli neri raccolti sotto il cappellino - uno dei pochi simboli colorati della manifestazione che veste di grigio il cielo, le strade e l’anima, e ricarica di antracite i fumi della fabbrica - Caterina Vozza è una delle tante mamme che ci sono. Lungo quella lingua di strada che ad un certo punto mischia il flusso di andata con quello di ritorno, mentre sullo sfondo il «camino» incriminato continua a sbuffare in cielo diossina e veleni, lei alza la mano.
Punta l’indice. Indica il «mostro». Poi volta l’indice verso quelle mamme che sono affacciate ai balconi dietro i panni stesi ad assorbire puzza e fumi. E quasi intima loro: «Scendete, venite qui. Cosa state a fare lì? Dobbiamo farci sentire». Ma soprattutto agita i suoi pensieri che rapidi vanno al binomio inquinamento-occupazione e, con semplici argomentazioni, delinea i grandi problemi di Taranto e del suo futuro.
Dalla sua ha la forza della semplicità. Da far impallidire i politici, quelli che alla manifestazione sono venuti e quelli che non ci sono. «Ha visto quella terra nei sacchetti donati ai nostri amministratori?» chiede con l’aria di chi ne ha raccolti a chili nella sua vita. «Sono vent'anni che abito qui, mi sono fatta una casa, pago ancora il mutuo. So io i sacrifici che abbiamo fatto. Ed ora cosa dovrei fare? Andar via? Quella terra, io la raccolgo ogni giorno, sui balconi, in casa. Da tanti anni. Da sempre. Ecco cosa respiriamo. Se non pulisci ogni giorno, te la trovi sotto i piedi, ti fa scivolare. E quello è ciò che vediamo. Non sappiamo cos'altro respiriamo ed ingeriamo senza neanche saperlo. Sa cosa dico? Noi l’acqua non dovremmo pagarla perché ogni giorno devi lavare tutto. Non basta mai lavare e rilavare. Perché, sa, noi vogliamo essere gente pulita. Invece, l’acqua ce la fanno pagare. Dobbiamo pagare, pagare e morire. Quei minerali dovrebbero metterli sotto terra, invece. Noi non diciamo che l’Ilva deve chiudere. I nostri padri, i nostri mariti lavorano lì. Ma almeno che si prendano seri provvedimenti. Non possiamo più andare avanti così.
Taranto muore. Senza dire quanti di noi si ammalano, ogni giorno, sempre di più. Per non parlare delle morti bianche. Quanti ragazzi, vanno lì a lavorare e in due o tre mesi se ne vanno. I nostri figli lo percepiscono. Mio figlio a 15 anni mi ha detto: “Mamma, io un lavoro all’Ilva non lo voglio mai”. Lui dice vuole andare via da Taranto. Qui non resiste». Poi Caterina torna a guardarsi intorno. Il mare di gente sta dissolvendosi ormai, troppo pochi e troppo poco tempo. «Bisognava essere di più, insistere ancora, la gente deve farsi sentire. Qualcosa deve pur accadere», aggiunge.
«La gente è sfiduciata perché, dopo la protesta, non succede mai niente. Non è che questa sia la prima manifestazione. E’ già accaduto», le fa eco un papà, Tommaso Ciccolella, molfettese di origine e tarantino per scelta, mitilicoltore. Conosce il mare lui e dice: «Se Taranto fosse altrove, questa città avrebbe turismo. A Mar Piccolo si potrebbe fare di tutto, dalle gare di vela a quelle di canottaggio. E le spiagge? Perché non danno a noi lavoratori in gestione pezzetti di spiaggia? Non pensa che non sapremmo tutelare bene il nostro ambiente?»
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