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Parla la vedova dell’operaio Ilva di Taranto Silvio Murri: voglio giustizia per le morti bianche

«La città non dimentichi»

La forza di raccontare Patrizia Perduno la trova nel sorriso: «La mattina del 21 maggio 2004 mio marito è uscito di casa prestissimo per andare al lavoro. Non è più tornato. Lavorava su un ponteggio che è crollato. Dopo tre anni inizia il processo»
24 novembre 2007
Fonte: Gazzetta del Mezzogiorno 24/11/07 - Fulvio Colucci

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La forza di raccontare Patrizia Perduno la trova nel sorriso. «Si chiamava Silvio Murri, aveva 38 anni. Era un operaio dell’Ilva, soprattutto era mio marito. La mattina del 21 maggio 2004 uscì di casa prestissimo per andare al lavoro. Non è più tornato». L’incidente si verifica su un ponteggio nelle acciaierie. Murri ci lavora con altri tre operai (per loro nessuna conseguenza grave). Turni pesanti, impegnativi. Montare impalcature, smontarle, fare manutenzione.

«Silvio diceva sempre di sì. Sperava nel contratto a tempo indeterminato e, intanto, dava l’anima per il lavoro. Anche sedici ore appresso al caposquadra. Mi chiedo però quanto possa rendere un uomo dopo una giornata così estenuante». Improvvisamente la struttura cede e Murri precipita al suolo battendo la testa su un oggetto metallico. «Per lui fu subito grave», racconta Patrizia Perduno, sgranando lentamente le parole.

La sua figura minuta si tende come un arco, mentre le mani cercano di afferrare qualcosa che nel vuoto non esiste. Per un secondo, un secondo solo, cede al dolore: «Silvio diceva che entrare nella grande fabbrica significava riscattare anni e anni di lavoro nero. Sarebbe stata la soluzione dei nostri problemi. Invece lì ha trovato la morte». Il ritmo del racconto riprende a salire: «Alle 14,30 ricevetti una telefonata, non ho mai saputo da chi, non ricordo nemmeno le parole: fu il tono a farmi capire che era successo qualcosa a mio marito».

Poi, la sequenza rapidissima che impasta al ricordo i colori delle emozioni più dure: «Vidi uscire Silvio dalla sala Tac, su una barella, sembrava dormisse. Era sporco di nero sul viso, su tutto il corpo, come se l’avessero estratto da una miniera. Sembrava dormisse, ma non era addormentato. Lo chiamavo, gridavo il suo nome. Non mi rispondeva». La disperata corsa all’ospedale SS. Annunziata è vana: «I medici mi dissero che era in coma profondo a seguito della caduta. Non si è più risvegliato. Nove giorni di agonia nel reparto di rianimazione. Senza potergli nemmeno tenere la mano».

Ma perché raccontare? E soprattutto per chi raccontare? «Lo devo a nostro figlio. Quel giorno di maggio, aveva otto anni, capì tutto. Era alle prese con i compiti. Gettò i libri per terra e pianse di rabbia. Oggi mi dice: cerco la voce di papà, faccio fatica a ricordarla...». Patrizia Perduno ricorda quei giorni, per lei sempre vicinissimi: «Era ieri. Sono passati tre anni. Già, perché raccontare? Perché chiedo giustizia, ma non è solo questo». Il prossimo dieci dicembre la prima udienza del processo per l’incidente in cui è morto Silvio Murri.

Quanto vale la vita di un uomo? «La giustizia, la giustizia certo. Ma anche la città, la città che deve sapere, anzi: non deve dimenticare». Nelle parole di Patrizia un sussulto lieve, quasi una increspatura a sollevare il velo che cinge la grande rabbia: «Per l’incidente in sé - spiega - ma anche perché dopo la morte di Silvio non sono stata avvicinata più da nessuno né per un conforto né per una spiegazione di quanto accaduto. Nessuno dell’Ilva; nessuno di quelli che in quei giorni dicevano “con Silvio eravamo amici” e si mostrava solidale. Spariti tutti.

Eppure i ritagli stampa raccontano di commozione e rabbia ai funerali di Silvio, il 31 maggio del 2004. In tanti accompagnarono il lavoratore nell’ultimo viaggio. «L’Ilva difenda i suoi operai» ammonì il parroco di San Giovanni Bosco, celebrando le esequie. Quasi profetico, il sacerdote esortò a non dare alla famiglia «una solidarietà di facciata». «Vivo della pensione lasciatami da mio marito ed è dura», riprende a raccontare Patrizia Perduno. «I miei cari sono sempre stati vicini a me e a mio figlio, ma quando restiamo soli a casa i ricordi pesano, specie quando scende il silenzio».

Della memoria di Silvio Murri, la moglie non desidera essere vestale solitaria: «La città deve ricordare». Una esortazione che la giovane donna vuol trasformare in dovere civile. Scrisse nei giorni della morte di Silvio un suo collega tramite e-mail: «Ma a chi importa dei nostri scioperi? Non provocano disagio a nessuno e nessun danno alla società». Solo pochi mesi fa giovani operai dell’Ilva hanno denunciato, alla “Gazzetta”, la lontananza della città: «Non sanno cos’è la paura di non tornare a casa.

Non sanno di noi, delle nostre ansie, delle mogli a casa, appese al filo del Televideo col timore di veder comparire la notizia: incidente mortale all’Ilva» . Patrizia Perduno riprende il cammino: «Il momento peggiore - spiega - è quando al risveglio mi rendo conto che mio marito non è più qui. Al suo posto, ora, c’è nostro figlio. Lui mi ha ridato un motivo per vivere. Ricordo cosa mi diceva sempre Silvio: stai attenta al bambino. Non posso deluderlo.

Un grande aiuto morale l’ho trovato nell’associazione “12 giugno” che riunisce i familiari delle vittime sul lavoro. Insieme condividiamo il dolore». «Una cosa mi rende più tranquilla - dice Patrizia mentre le parole tornano a scivolare sul crinale di un sorriso mite - ed è il fatto che in qualche modo mio marito Silvio vive ancora. In quel tragico momento presi la decisione di donare i suoi organi». Una vita dalla quale sono germogliate altre vite. A Silvio Murri sono stati espiantati cuore, reni, cornee e fegato come narrano le cronache. Il seme del dolore.

Giustizia e memoria: «Perché quella delle morti bianche è una guerra - spiega ancora Patrizia - con i suoi bollettini quasi giornalieri. L’ultimo incidente mortale all’Ilva risale alla scorsa estate, un ragazzo di 26 anni di Palagiano. Solo 26 anni... Se la magistratura accerta responsabilità penali, chi ha sbagliato deve pagare». Il tono del racconto diventa improvvisamente più aspro, parole scagliate come sassi. Tornano alla mente le sensazioni che provò a trasmetterci un giovane operaio, intervistato dalla “Gazzetta” lo scorso agosto: «L’infortunio mortale è come il mare. Non fa differenza tra la tempesta ed una bella giornata di sole. Ti prende e ti porta via con sé».

«Come si fa a spiegare ad un bambino che non rivedrà più suo padre solo perché è andato a lavorare? Ecco io vorrei girare questo interrogativo ai tarantini. Desidererei ottenere una risposta», chiosa Patrizia Perduno mentre getta uno sguardo alla città, la città distratta e indaffarata, che corre, cieca, nel mattino appena rischiarato da una pallida luce. «L’operaio è una persona, non una macchina. Ma l’industria, oggi, e soprattutto chi la dirige, non sembra ricordarselo. Non si può pensare solo alla produzione».

Patrizia Perduno cerca giustizia, ma non punta l’indice. Vuol solo sapere, capire. «Mio marito aveva 38 anni - ripete - ed è assurdo morire così. Di lui mi resta un bacio all’alba e la sua preoccupazione per quel mal di testa che la mattina dell’incidente lo tormentava. Gli dissi di non andare al lavoro, ma lui non mi ascoltò».

«Ai sindacati rimprovero di non impegnarsi abbastanza per garantire la sicurezza degli operai», chiude Patrizia senza emozione. Sembra ritrovarsi, nelle sue parole, l’anello mancante della profezia che trent’anni fa formulò sulle colonne del “Corriere della Sera” Walter Tobagi: «Vista da quaggiù, l’autonomia del sindacato sembra indefinibile come un’araba fenice». Tobagi parlava del suo presente, ma guardava al futuro. Non sapeva che un giorno di molti, troppi, figli dei «metalmezzadri», sarebbe rimasta traccia in quell’arcobaleno che al mattino sale dai parchi minerali irrorati d’acqua.

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