Morte Bianche all'ILVA: rischiano in 24
Un altro infortunio mortale registratosi all’ILVA arriva al vaglio del giudice delle udienze preliminari. Se non ci saranno imprevisti, fra 48 ore il gup del Tribunale dott.ssa Valeria Ingenito prenderà in esame il procedimento che vede sotto accusa ben 24 persone, tutte sospettate di aver avuto precise responsabilità per l’incidente a seguito del quale perse la vita un dipendente dello stabilimento siderurgico, il povero Gianluigi Di Leo.
A giudizio della Procura, a far luce sulle cause alla base del decesso del giovane operaio (all’epoca dei fatti aveva ventiquattro anni) dovrebbe pensarci un regolare processo. Secondo il procuratore aggiunto dott. Francesco Sebastio, ognuno degli inquisiti, fra cui capiturno, capicantiere, responsabili di reparto, tecnici ed operai, si sarebbe reso protagonista di condotte colpose risultate capaci di non scongiurare il tragico episodio.
Ad aver indotto gli inquirenti a puntare l’indice contro gli attuali imputati è stata sicuramente la ricostruzione della dinamica dell’incidente, una ricostruzione resa possibile anche dai risultati degli accertamenti disposti sui due “carriponte” che, entrati in collisione, provocarono la morte del giovane Di Leo. Stando a ciò che è emerso dalle indagini, il violentissimo impatto fu causato dalla mancanza di un dispositivo che avrebbe dovuto evitare ciò che invece si verificò.
L’incidente diede origine al distacco dai binari di una sbarra di ferro che, caduta da un’altezza di quindici metri, andò a centrare in pieno la testa del giovane operaio, che aveva finito da poco il suo turno di lavoro e stava per far ritorno a casa. La trave sfondò il cranio del 24enne senza lasciargli scampo. I soccorsi furono immediati, ma tutto si rivelò inutile. Le lesioni riportate furono gravissime. Niente e nessuno avrebbero potuto salvare lo sfortunatissimo Gianluigi. Dubbi sul fatto che a risultare decisiva per la tragedia fu l’assenza del componente anticollisione su uno dei due “carroponte” la Procura non ne ha mai nutriti.
A giudizio dei tecnici che hanno avuto modo di esaminare i macchinari entrati in collisione, sarebbe stata proprio la mancanza del ricevitore di onde elettromagnetiche a “favorire” il violento urto. Una conclusione che ha indotto i titolari dell’inchiesta ad ipotizzare che se il segnalatore fosse stato installato, non sarebbe sorto alcun tipo di problema. Con molta probabilità, l’impatto non si sarebbe mai verificato anche perchè, qualora il sistema fosse risultato funzionante, il dispositivo di sicurezza avrebbe rallentato l’arrivo del trasportatore di bramme fino a farlo fermare in prossimità dell’altro.
Sul motivo che ha reso possibile questo tipo di incidente gli inquirenti un’idea l’hanno maturata. Stando a quanto viene sostenuto nel capo d’imputazione, a seconda dei ruoli rivestiti nella vicenda, gli indagati non avrebbero posto rimedio ad uno stato di cose che si conosceva e che non poteva rimanere inalterato. Del resto, a seguito di una verifica della documentazione esistente in reparto, gli investigatori hanno scoperto che appena due giorni prima della morte di Di Leo gli stessi “carriponte” sarebbero entrati in collisione. Uno scontro di cui in pochi hanno avuto contezza forse solo perchè non si registrò alcun incidente.
Quello scontro avrebbe dovuto rappresentare un chiaro segnale d’allarme per chi lavorava nel reparto. Ma questo non avvenne. A giudizio del pubblico ministero, quell’incidente non sarebbe stato preso in seria considerazione, chi avrebbe dovuto porre immediatamente un rimedio non avrebbe fatto nulla. Contribuendo così al verificarsi del nuovo tremendo impatto che determinò il distacco della trave (del peso di circa 40-50 chili) che andò ad uccidere il povero Di Leo.
Una tragica morte, l’ennesima registratasi nello stabilimento ILVA, che è diventata materia da trattare nelle aule di Palazzo di Giustizia.
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