Quando a Taranto c'erano le ostriche
Negli anni sessanta, infatti, la città viveva in totale equilibrio con il suo ambiente e produceva quei servizi che erano correlati alla sua originalissima posizione geografica: una città con due mari. Nel mare interno, «il mare piccolo», venivano prodotte cozze e ostriche famose in tutto il mondo e noi tarantini potevamo offrire ai visitatori piatti che altrove costavano già una fortuna. Anche in campagna si produceva l'ottima uva che dava il «primitivo» allora usato dai vinicultori francesi e toscani per «tagliare» i loro vini anemici. La città non era ricca ma tutti se la cavavano decentemente e le relazioni tra le «classi di ricchezza» non erano troppo squilibrate.
In questa situazione, all'inizio degli anni sessanta, quelli dello sviluppo e del boom economico, qualcuno, dal nord industrializzato e ricco, decise che Taranto doveva «svilupparsi», perché, come dice ancora oggi chi si candida a governare il paese, se non c'è Pil non c'è ricchezza. Ecco allora la creazione, su ettari e ettari di aranceti, uliveti, vigne e boschi, spiagge e fiumi, monumenti della magna Grecia, del gigantesco Centro siderurgico.
In questa città a vocazione marinara e agricola, con una potenzialità turistica enorme, viene a forza innestato il corpo estraneo della più grande acciaieria europea.
I contadini e i marinai si trasformano in operai nel giro di qualche anno, «dagli aratri nei campi agli aerei nel cieli» diceva Tenco, mentre il mare diviene una enorme discarica per inquinanti di tutti i tipi e muoiono le cozze, spariscono le ostriche, le campagne vengono abbandonate, le spiagge scompaiono e il cielo si tinge periodicamente di «rosso altoforno».
La cultura autoctona viene immiserita e scoraggiata, il produttivismo condanna i figli della filosofia greca all'emarginazione culturale, sempre in nome del Pil. Ovviamente a questa tragedia degna dell'analisi sui più brutali processi di colonizzazione fatta da Frantz Fanon, ne seguono subito delle altre.
Arriva «l'indotto» cioè un porto mostruoso con moli da un chilometro che sventrano altri boschi, la Shell che impianta senza colpo ferire una sua raffineria che viene duplicata un anno fa senza che la città ne venga minimamente informata, mentre il siderurgico, svenduto ai privati sempre per via del Pil e della modernità del privato rispetto al pubblico, «molla» su tutti gli standard ambientali portando Taranto a essere la città a più alto tasso di tumori polmonari al mondo.
Dulcis in fundo anche il porto militare viene duplicato, per permettere alle navi nucleari di prepararsi a sostenere il loro ruolo nella «guerra globale». Ovviamente non poteva mancare l'amministrazione comunale sintonica, quella della rappresentante di Forza Italia Rossana Di Bello che, dopo una trionfale rielezione, si deve dimettere lasciando alla bancarotta la città.
Oggi il sindaco di sinistra Ippazio Stefano, deve governare una città avvelenata, in tutti i sensi, con uno spazio di manovra ristrettissimo e, soprattutto, senza che i livelli nazionali si pongano minimamente il problema del come invertire questo genocidio ambientale. I bambini che succhiano diossina dal seno materno dovrebbero far riflettere coloro che continuano a ritenere «la crescita» come un feticcio al quale sacrificare tutto e le compatibilità ambientali qualcosa che si può vantare di giorno e violare di notte.
Ancora una volta, lo vorremmo e lo sosteniamo, saranno i bambini a «salvare» la città con la loro denuncia e le loro chiarissime proposte: chiudere il Siderurgico dei veleni e bonificare Taranto dagli inquinanti che misurano il Pil.
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