Inquinamento di Stato
L’ultima sentenza del Tar sulle nomine dei componenti delle Commissioni indicate dal ministero dell’Ambiente rischia di consegnare alla confusione più totale i vincoli normativi predisposti per limitare le attività inquinanti dell’industria. Una vacatio legis che potrà provocare enormi danni all’ambiente e al territorio. Ed è proprio Taranto, una delle città più inquinate d’Italia a causa della presenza dell’impianto siderurgico dell’Ilva, che rischia di pagarne presto le conseguenze. Il pericolo è inequivocabilmente verificabile nella vicenda dell’Aia (Autorizzazione integrata ambientale): introdotta con direttiva 61/96 (direttiva Ippc), è lo strumento cardine della Ue per l’attuazione di politiche ambientali che mirano a realizzare la riduzione complessiva dell’inquinamento prodotto dal settore industriale.
Tecnicamente l’Aia attua un approccio preventivo e integrato che punta a evitare, o se non è possibile a ridurre, le emissioni intervenendo nelle varie fasi del processo, alla sua fonte. L’Aia riguarda anche l’efficienza dell’uso dell’energia e «le misure necessarie per prevenire gli incidenti». La prima “anomalia” del legislatore è il parziale recepimento della direttiva, nel 1999. A seguito di procedura d’infrazione, viene delegato il governo nel 2003 e il recepimento avverrà due anni dopo. Il legislatore comunitario attraverso la direttiva si prefigge di attuare la riduzione integrata dell’inquinamento nell’aria, nell’acqua e nel suolo. La centralità Ippc nelle politiche comunitarie trova piena conferma nel VI Programma comunitario per l’ambiente: “Ambiente 2010 il nostro futuro, la nostra scelta”. Nell’obiettivo generale “ambientesalute” è specificato che occorre «ottenere una qualità dell’ambiente tale che i livelli di contaminanti di origine antropica non diano adito a conseguenze o a rischi per la salute umana».
Tutte le aziende italiane, circa 8.000, dovevano ottenere l’Aia entro l’ottobre 2007. I grandi impianti di competenza statale sono 200: a tutt’oggi le Aia concesse ammontano a circa 30. Emblematico e cinico, si diceva, è il caso della martoriata Taranto. Dichiarata per legge “città a elevato rischio di crisi ambientale”, e con una emissione di diossina pari al 90 per cento del totale prodotto in Italia. In Europa il limite diossine in un metro cubo di aria è di 4 diecimiliardesimi di grammo. In Italia con una furbata “aggregativa” (media tra 200 congeneri diversi di diossine e simili) si è stabilito un limite enormemente superiore. E da nessuno è stato mai modificato. Diciotto mesi fa un accordo tra ministero dell’Ambiente ed enti locali fissava in 300 giorni il tempo massimo per l’ottenimento dell’Aia ai 7 impianti maggiormente inquinanti di Taranto.
Secondo i dati dell’Ines (Inventario nazionale delle emissioni e delle sorgenti), oltre alla diossina, a Taranto l’industria immette in atmosfera il 95 per cento degli Ipa (Idrocarburi policiclici aromatici) prodotti da tutto il settore industriale italiano, oltre al 57 per cento di mercurio e rilevanti quantitativi di cadmio e cromo. L’Aia, congiuntamente ai Piani regionali di risanamento e tutela della qualità dell’aria e dell’acqua, può arginare gli effetti di quel “mattatoio”, silente e cinico. Intanto, i numeri dimostrano quanta indifferenza possa essere mostrata dalla politica e dalle istituzioni: la commissione Aia del ministro Prestigiacomo ha concesso 26 Aia.
Pur nell’evidente emergenza di Taranto, su 157 Aia complessive il maggiore emettitore di inquinanti, l’Ilva, è stato posto come ordine di intervento al 113esimo posto, al 13esimo la raffineria Eni, al 96esimo la centrale Edison, al 118esimo Enipower. Taranto dovrà sorbirsi patologie e inquinamento almeno per un altro lustro, considerando il ritmo di produzione di 26 Aia della Commissione. E ora la confusione normativa non potrà che dilatare i tempi. Eppure i 7 impianti hanno prodotto complessivamente negli ultimi quattro anni utili annui per circa un miliardo di euro. Con grande gioia dei proprietari delle industrie. Tra cui lo Stato con Eni ed Enel.
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