Conflitti

Scomparsi i negoziati e la parola "pace"

Dolci, terribili scivolamenti del discorso pubblico sulla guerra in Ucraina

Il discorso pubblico sulla guerra in corso si va modificando in modo rapido e sostanziale ma, al contempo, poco visibile e perciò “indolore”. Questi cambiamenti così rilevanti raramente sono oggetto di discussione in quanto tali e questo può contribuire a renderli invisibili ai nostri occhi.
1 maggio 2022

Foto di OpenIcons da Pixabay

Il discorso pubblico sulla guerra in corso si sta modificando e lo sta facendo in modo rapido e sostanziale ma, al contempo, poco visibile e perciò “indolore”. Credo che questo fatto sia degno della nostra più grande attenzione. Si tratta di un cambiamento che si sta verificando, per così dire, per “scivolamenti”, in un modo che a vederlo sembra naturale. Un processo che avviene dolcemente, senza scossoni, e tuttavia rapidamente, visto che la realtà costruita e palesata dalle parole pubbliche cambia come seguendo due velocità: solo un pochino da un giorno all’altro, ma radicalmente se guardiamo allo spazio temporale delle poche settimane che ci separano dall’inizio della guerra. Questi cambiamenti così rilevanti raramente sono – mi sembra – oggetto di discussione in quanto tali ed è infrequente che si ponga l’accento su certi fatti denotandoli come segnali di cambiamento della situazione. Questo può avere come conseguenza – credo –quella di contribuire a renderli invisibili ai nostri occhi.

Farò di seguito alcuni esempi di questi che ho chiamato “scivolamenti”.

Un primo scivolamento del discorso pubblico sulla guerra è quello che troviamo su un ideale percorso che parte dal parlare di “Ucraina e Russia” e digrada finendo sul parlare di “USA/NATO e Russia”. Dall’inizio della guerra, gli attori prevalenti e visibili in gioco sono mutati, così come sono mutati i loro ruoli e le loro posizioni e mosse sullo scacchiere internazionale. La cosa ha cominciato forse a intravedersi già a marzo con le prime dichiarazioni di Biden su Putin (“criminale di guerra”, “macellaio”): ricordiamo tutti come esse siano state inizialmente definite, dai vari commentatori, come delle probabili gaffe (come se si stesse parlando non del Presidente degli Stati Uniti, ma di un qualunque individuo che al bar si lasci sfuggire più o meno inavvertitamente fiati scomposti come uno che, guidando da ore, si fermi per urinare sul ciglio dell’autostrada senza preoccuparsi neppure, tanto è l’impulso, di nascondersi dietro lo sportello aperto dell’auto). Intanto, mentre il dubbio – sollevato da pochissimi – circa un qualche interesse degli USA a rinfocolare la guerra (o perlomeno a non caldeggiare la pace) è stato prontamente denigrato, ridicolizzato e talvolta anche condannato in quanto bieco affronto ai nostri alleati, l’idea della presenza degli Stati Uniti, nella dinamica guerresca, si è fatta strada in modo “indolore”: dapprima – come dicevo – insinuandosi nelle pieghe tra una dichiarazione vestita da sfogo verbale inaccorto e una smentita (ricordiamo, ad esempio, l’affermazione di Biden “Quest’uomo [Putin, NdA] non può restare al potere”, poi “aggiustata” dalla Casa Bianca), poi palesandosi in modo esplicito in tutta la sua estrema realtà. Oggi non c’è ormai nessuna remora al parlare apertamente del ruolo attivo, in questa guerra, degli USA (anche se esso – va detto – è variamente letto). E c’è anche chi, non solo tra i pacifisti più incalliti, afferma esplicitamente che la pace non si fa perché Biden non la vuole. Uno di quelli che l’ha sostenuto in modo chiaro, aggiungendo anche, ospite nella trasmissione Tagadà dell’11 aprile, che la volontà di Biden è “vedere Putin nella polvere”, è il generale Leonardo Tricarico, ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare. Nessun battere le ciglia per queste affermazioni: sembra ora come normale che sia così, in una sorta di ulteriore scivolamento del discorso pubblico da un punto A, saturato delle dichiarazioni continue sul dovere morale di aiutare gli Ucraini invasi a difendersi e di sostenere la lotta per la libertà, a un punto B affollato (anche) di altri intenti e interessi: economici, politici, di potere tra potenze. Intanto, mentre scivoliamo, ci comportiamo come gli Stati Uniti (anche inviando armi, magari con qualche insulto verbale in meno di accompagnamento), il cui agire è sempre più chiaramente visto come non orientato verso la pace, e nel farlo diciamo che lo facciamo per perseguirla. Una situazione piuttosto strana.

 

Un altro scivolamento, direi collegato al precedente, è quello che ha per protagonisti i negoziati. Per le prime settimane, di essi si parlava molto. Poi, all’improvviso, un giorno (e per diversi giorni) non se n’è più parlato. Scomparsi, semplicemente, mentre il dibattito pubblico si è andato, in misura sempre maggiore e con modalità talvolta sfacciate, saturando di missili, carri armati, corpi straziati, sangue, armi. Tante armi, in tante salse: descrizioni di armi, nomi tecnici di armi, armi da difesa e d’aggressione, richieste di armi, invii di armi. Il senso di familiarità con questo genere di cose si può presumere sia parecchio aumentato. Contemporaneamente, si sono brevemente affacciati, sulle pagine dei giornali, arsenali nucleari da espandere (la Cina) ed eserciti permanenti da collocare (esercito NATO ai confini orientali dell’Europa). Ma hanno fatto solo capolino: data l’informazione, non hanno preso grande spazio. Ad un certo punto, poi, i negoziati hanno fatto ritorno, fugacemente, nel dibattito, ma “al negativo”: si è detto perlopiù che ora non è tempo di farne. Questo è stato affermato, a fasi alterne, anche dalla parte ucraina, che ha sostenuto, ad esempio, di voler giungere alle trattative forte di una vittoria nel Donbass (pensando dunque a un incontro tra Putin e Zelensky successivo alla battaglia in quella zona) e che la distruzione delle forze ucraine a difesa di Mariupol avrebbe messo fine ai negoziati con la Russia(in altre occasioni, Zelensky ha affermato di essere pronto a incontrare Putin). Si può forse pensare che nessuno dei protagonisti principali di questa vicenda (Zelensky, Putin, Biden) voglia trattare ora (e alcuni, a dire il vero, lo dicono già da tempo). A proposito del “mondo occidentale”, già parecchi giorni fa il generale Tricarico, nella stessa intervista menzionata più sopra, aveva affermato: «La parola “negoziato” non è stata mai pronunciata da Biden, da Stoltenberg, da Blinken, da Johnson, dai Paesi baltici, dalla Polonia. Allora, questo è molto grave [...]. Se andiamo a scorrere tutti gli interventi pubblici, o anche non pubblici, di quei personaggi che ho detto, non troveremo mai la parola “cessare il fuoco”, “negoziato”, “stop alle armi”. Perché? Perché evidentemente non vogliono la pace [...]». Un punto di vista interessante – io credo –, soprattutto per la posizione dalla quale arriva. A vederla così, dunque, siamo partiti da un punto A in cui le trattative ricoprivano un ruolo fondamentale nel discorso pubblico, che ne seguiva con comprensibile apprensione gli sviluppi, e siamo scivolati al punto C “negativo” descritto ora, passando per un punto O (un ideale zero) di assenza di parole sui negoziati. Una lunga strada, percorsa in un tempo brevissimo, che ha condotto a uno scenario completamente differente da quello di partenza. Ci siamo scivolati, verso questo nuovo scenario, passando, metro dopo metro, giorno dopo giorno, per (apparentemente) piccole differenze. Ma ora forse qualcuno in più inizia a notare la distanza, divenuta abnorme, tra il punto di partenza e quello attuale, probabilmente a seguito delle notizie di questi ultimi giorni, che ci parlano senza neanche un pelo sulla lingua di obiettivi ben diversi dal sostenere la difesa della gente ucraina e si spingono fino alle dichiarazioni londinesi circa la legittimità dell’utilizzo delle armi britanniche inviate a Kiev per compiere attacchi in Russia. Ben altro che trattative seduti al tavolo, insomma.

 

Scomparsi i negoziati, scomparsa la parola “pace”. Un termine che è stato da parecchi sostituito, in maniera alla fine esplicita e senza remore, dalla parola “vittoria”: l’8 aprile, la Presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen, in visita a Kiev, si è detta certa della vittoria ucraina, mentre l'Alto rappresentante Ue per la Politica estera, Josep Borrell, parlando con Zelensky ha affermato che «noi faremo di tutto per farle avere le armi per vincere questa guerra», rincarando poi la dose su Twitter: «Questa guerra sarà vinta sul campo». Più recentemente, il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel, da Kiev, ha affermato: «Noi vogliamo la vittoria dell'Ucraina e siamo determinati a fare di tutto per sostenere Kiev» (per inciso, dovremmo probabilmente notare che tutto ciò, ovviamente, allontana ulteriormente l’Unione Europea dal ruolo di mediatrice). In questo quadro generale, non stupisce che si sia arrivati al segretario USA alla Difesa, Austin, che afferma di voler «vedere la Russia indebolita a un punto tale che non le sia più possibile fare il tipo di cose che ha fatto con l’invasione dell’Ucraina».

 

Sono finiti qui, gli scivolamenti? No. Ce ne sono altri, e su almeno uno di questi voglio porre qui la lente. Si tratta di quello che digrada dalle diffuse attestazioni iniziali, sui media, di non ostilità verso il popolo russo (del tipo “ce l’abbiamo con Putin, non con la Russia o i Russi, e ci teniamo a sottolinearlo”), al discorrere attuale, così tanto marcato da una contrapposizione “noi (Occidentali)/loro” che solo qualche settimana fa sembrava fare orrore. Ne sono piene molte trasmissioni televisive, in salse diverse e con gradazioni diverse di intensità. E’ forse in questa chiave che si possono leggere anche fatti che sono – io credo – estremamente gravi, passati assolutamente inosservati, come quello accaduto nella trasmissione “Non è l’arena” il 3 aprile, quando il giornalista ucraino Maistrouk ha espresso esplicitamente e ripetutamente pesanti minacce contro il giornalista russo Alexey Bobrovsky. Segno – io credo – che l’aggressività e l’odio sono ormai considerati così normali, da “noi Occidentali” che ci pavoneggiamo così tanto nello sbandierare la nostra “superiorità morale”, da poter essere espressi in prima serata in tutta tranquillità.

La guerra è tra noi, pienamente. Questo è un problema di cui dovremmo occuparci, possibilmente prima che ci scivoliamo dentro – a proposito di “scivolamenti” – oltre che con la testa e le parole, anche con tutte le scarpe.

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