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I boss del legno

Ogni anno 60 milioni di metri cubi di legname vengono tagliati illegalmente. La foresta africana ha perso 52 milioni di ettari in cinque anni, e l'Italia è il primo importatore di legnami dal continente. Un giro d'affari stimato intorno ai 150 miliardi di dollari.
Che attira sempre più l'attenzione della criminalità organizzata.
28 settembre 2004
Christian Benna

Foto Fao taglio alberi Leonid Minin è un noto trafficante d'armi. Secondo le Nazioni Unite sarebbe a capo della mafia ucraina in Europa. Tra un affare e l'altro è stato anche il presidente dell'Exotic tropical timber entreprises (Ette), società liberiana specializzata nel taglio di legname ai tempi dell'ex dittatore Charles Taylor e implicata nella vendita di armi alla Sierra Leone. Oggi Minin è uomo libero, malgrado i "contrattempi" dell'arresto avvenuto nel 2000 a Cinisello Balsamo per possesso di stupefacenti e occultamento di diamanti. Anche in quel caso però gli intrecci poco trasparenti (armi incluse) e le aziende senza scrupoli interessate al mercato del legname non hanno subito battute d'arresto, continuando a divorare le foreste tropicali. Il tutto a ritmi forsennati, "a caccia" di legni pregiati. Dal mogano dell'Amazzonia al ramino dell'Indonesia, passando per l'afrormosia dell'Africa subsahariana fino al teak birmano. È stato calcolato, secondo studi di esperti intervenuti ad un seminario per la salvaguardia dei boschi di Interlaken, che ogni giorno scompare una superficie forestale pari a 25 mila campi da calcio. E ogni anno circa 60 milioni di metri cubi di legname vengono tagliati illegalmente per un giro d'affari intorno a 150 miliardi di dollari (dati Ocse). Il 50% delle importazioni europee, lo rivela l'ong Friends of the earth, è di dubbia provenienza (l'Italia è il primo importatore di legnami africano, nonché primo produttore di mobili europeo). Ma cosa significa taglio illegale? La vicenda di Minin è solo un episodio isolato o è prassi consolidata? I paesi in via di sviluppo sono o no sovrani del loro territorio e delle relative concessioni?

Un taglio da Far west

«Ogni stima è approssimativa - osserva Sergio Baffoni, responsabile foreste di Greenpeace Italia - ma la situazione resta drammatica per via del mercato del legno: poco trasparente e costoso. La corruzione è endemica in moltissimi paesi e fa sì che le compagnie possano operare dove meglio credono e su modelli di estrazione di tipo minerario». Infatti il commercio di legname non sostenibile, malgrado il legno sia considerato il materiale ecologico per eccellenza, comporta la distruzione di habitat naturali (come nel caso dell'allarme lanciato dal Wwf per l'orango indonesiano) e lo sconvolgimento delle comunità indigene. «In Africa poi si tratta di un vero e proprio far west in cui le compagnie estrattive arrivano, lavorano per dieci anni e se ne vanno senza portare sviluppo o beneficio. Anzi, seminano scontento e rivalità tra le popolazioni, attratte dal miraggio di un facile benessere. Da quanto ho potuto osservare nel mio ultimo viaggio in Camerun, il governo non sembra reinvestire le royalties delle concessioni in servizi per la popolazione».
Secondo statistiche della Fao, la foresta africana primaria è stata depredata di circa 52 milioni di ettari nell'arco di soli cinque anni (1990-1995). Un disboscamento selvaggio che ha portato via il 70% delle foreste millenarie dell'Africa Occidentale, oggi completamente distrutte.
«Ma non è solo il commercio a contribuire alla deforestazione - spiega Maurizio Collella, presidente di Fedecomlegno, che rappresenta il 70% delle società d'importazione del legno che lavorano in Italia - Anche le popolazioni locali bruciano legname per impiantare nuove coltivazioni. Oggi la Banca mondiale fa da mediatore tra le varie necessità e responsabilità. Anche l'operato dei governi deve essere monitorato. Perché noi imprenditori non possiamo fare i poliziotti, e quando arriva il legname in Italia per noi è legale».
A parte qualche distinguo, la Fedecomlegno approva la linea di Greenpeace e favorisce la certificazione Fsc (Forest stewardship council, Consiglio per la gestione forestale sostenibile) per garantire gli acquisti dei consumatori. «Resta il fatto che la Fsc non garantisce al 100% il consumatore - specifica Collella - e casi di taglio illegale dalla Croazia lo provano. Non dimentichiamo poi gli alti costi di certificazione delle aziende». Certificazioni troppo care? «No di certo - replica Baffoni di Greenpeace, che ha stilato una guida alla scelta del legno (www.greenpeace.it/new/guida_legno) - La Fsc incide solo per l'1% sul fatturato di un'azienda. E solo 100 imprese e 3 aziende forestali hanno aderito alla certificazione. È vero però che il discorso cambia se si tratta di importare legno africano pregiato». Tuttavia secondo Baffoni la certificazione non è la panacea per tutti i mali. «Serve una normativa italiana, oltre che europea, contro il taglio illegale. Oggi ci sono troppe zone d'ombra in cui prosperano personaggi e imprese senza scrupoli. Bisogna poi capire cosa significa taglio illegale: in molti paesi il sistema delle mazzette è la vera e unica norma. Pagando si possono ottenere concessioni pressoché ovunque, anche in foreste protette».

Tronchi di guerra

Navi cariche di legname liberiano, proveniente da aziende che commerciano in armi, attraccano indisturbate al porto di Ravenna. Lo hanno toccato con mano gli attivisti di Greenpeace lo scorso marzo 2003, nelle stesse ore in cui i ribelli del Lurd (Liberiani uniti per la riconciliazione e la democrazia) preparavano l'assedio a Monrovia (mille morti in meno di due settimane), capitale in guerra civile da 14 anni. A giugno sono intervenute con forza le Nazioni Unite, mettendo al bando le importazioni di legno dalla Liberia per 10 mesi (Francia e Italia sono i primi acquirenti in Europa), perché palese moneta di scambio per il commercio di armi. Tuttavia le denunce sul traffico di armi per legname erano già state lanciate nel 1994 da Global witness, l'ong londinese che studia sul terreno il fenomeno dei conflitti alimentati dalle risorse prime. E in un rapporto del 2002 l'organizzazione non governativa ripercorre il viaggio del legname liberiano verso l'Europa e l'Asia orientale, passando per i porti di Marsiglia, Nizza e Genova. Fu lo stesso dittatore Charles Taylor, oggi in esilio in Nigeria, ad ammettere candidamente il giro d'affari «perché il paese doveva difendersi dalla minaccia dei ribelli». E non poteva farlo per via del precedente embargo Onu sull'import-export di armi e diamanti, vecchio binomio di guerra con cui Taylor ha incendiato anche la Sierra Leone. Oggi circa 15 mila peacekeeper cercano di vigilare la transizione della Liberia, uno dei pochi paesi fino al '97 ad avere le foreste intatte. Ma le aziende non hanno perso tempo e si sono buttate sulle immense risorse della Repubblica democratica del Congo, anch'essa travolta da una guerra che fatica a spegnersi.

Mondializzare il problema

E la società civile africana inizia a protestare: oltre 100 ong ambientaliste e umanitarie nella Repubblica democratica del Congo hanno chiesto alla Banca mondiale di fermare i piani di sviluppo economico del paese che dividerebbero la seconda foresta pluviale più estesa al mondo in diverse zone di concessioni per il taglio di alberi. Documenti interni della Banca mondiale, ottenuti da Rainforest foundation, rivelano che la Banca intende "creare un clima favorevole per lo sfruttamento forestale" nel paese, e ne prevede un aumento del 600% della produzione. L'allarme in realtà è stato lanciato già con forza nel 2002 dalla Federazione panafricana delle associazioni dell'Unione africana, una ong attiva in Costa d'Avorio per la gestione sostenibile delle foreste. «Dobbiamo mondializzare il problema della deforestazione africana - ha sostenuto Traoré Wodjofini, presidente dell'associazione - come è stato fatto per l'Amazzonia».

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