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L’Ilva ci avvelena e io perdo le pecore

Vincenzo Fornaro: la sua azienda di allevamento dista meno di due chilometri dall’Ilva di Taranto. Dovrà abbattere il gregge perché contaminato dalla diossina
19 novembre 2008
Alessandra Lamanna (Quotidiano City)

Un gregge di pecore, sullo sfondo una ciminiera

La sua azienda si occupa di allevamento ovicaprino. Senza le pecore che fate?

Niente, siamo fermi da settembre, da quando la Regione Puglia ci ha fatto notificare il decreto di abbattimento. E così, dopo aver perso la vendita pasquale di agnelli, perderemo quella di Natale. Siamo stufi di essere sempre noi, i piccoli, a farne le spese. Ma qualcuno di queste tre industrie intorno, che sia l’Ilva, l’Eni, la Cementir o tutte e tre insieme, dovrà pagare. E non in tempi biblici.

Facciamo un passo indietro. Perché deve abbattere le sue pecore?

Perché sono piene di diossina, è a rischio la catena alimentare.

Come ve ne siete accorti?

È cominciato tutto con le analisi fatte dagli ambientalisti di Peacelink su un formaggio prodotto da un’azienda vicina in cui trovarono diossina e pcb. Da lì sono scattati una serie di campionamenti che a marzo hanno toccato la nostra azienda. Alla prima analisi il latte è risultato positivo agli stessi inquinanti, così ci hanno imposto il vincolo sanitario. I due esami successivi sono stati negativi, ma a quel punto hanno controllato le carni. Ho sacrificato quattro pecore e quattro capre: su fegato, reni e grasso delle più vecchie c’era diossina accumulata molto oltre i limiti. Quindi ci hanno vietato il pascolo per timore dei terreni contaminati e da allora sosteniamo pure le spese per il mangime e il fieno.

Poi a settembre è arrivata la delibera di abbattimento.

Io dovrò abbattere 500 pecore ma il provvedimento riguarda in totale 1200 animali di sette aziende della zona per un risarcimento complessivo di 160mila euro, da cui bisogna togliere le spese di trasporto, macellazione e smaltimento.

La vicenda in 5 date
1940
L’ottocentesca masseria Carmine, 40 ettari nelle campagne alla periferia di Taranto, viene acquisita dalla famiglia Fornaro. La principale attività è l’allevamento ovicaprino.

1965
A Taranto nasce il centro siderurgico Italsider, oggi Ilva, che espropria ai Fornaro una masseria e parte dei terreni.

2008
Dopo la scoperta che le carni di pecore e capre sono contaminate dalla diossina, a marzo la procura di Taranto avvia un’inchiesta a carico di sconosciuti con l’ipotesi di reato di disastro colposo. A settembre una delibera regionale impone l’abbattimento di 1200 pecore di sette aziende vicine all’Ilva. Fra queste anche 500 animali della masseria Carmine.

2009
La Regione Puglia ha appena varato una legge che riduce il tetto per le emissioni di diossina rispetto al limite nazionale pari a 10 nanogrammi a metro cubo. Di fatto, ha dichiarato guerra all’Ilva di Taranto, gestita dal gruppo Riva. Entro aprile 2009 limiti agli inquinanti per gli impianti dovranno essere pari a 2,5 nanogrammi a metro cubo.

2010
La stesse legge regionale prevede che entro il 31 dicembre gli inquinanti non potranno superare la soglia di 0,4 nanogrammo a metro cubo. Se non si adeguerà, l’Ilva dovrà chiudere.
Quanto fa a pecora?

In teoria 133 euro, ma visti i costi da detrarre, facendo un calcolo ottimistico, avremo qualcosa come 60-65 euro contro un valore dell’animale di 250-300 euro.

Ma siamo a novembre e le pecore ancora sono lì...

Adesso stanno pure nascendo gli agnellini, quindi è probabile che quando verranno ad abbattere, arriveremo a 650/700 animali. Siamo in attesa degli eventi: visto che non possiamo più lavorare, almeno dateci questi quattro soldi e non ne parliamo più. Mio padre dice. “Se fossi sicuro che con l’abbattimento, verrebbe meno l’inquinamento di Taranto, io le pecore le regalerei”. Ma questo è impossibile. Hanno deturpato una città che viveva di campagna e di pesca, la stanno distruggendo con le malattie. E i profitti, poi, li portano altrove.

Con chi ce l’ha?

Con gli imprenditori che hanno causato questo inquinamento e sappiamo qual è la più grande industria di Taranto. Ma anche con i politici. Ho scritto a Pietro Franzoso (deputato Pdl, ndr.) senza risposta; ad Adriana Poli Bortone (senatrice Pdl, ndr.) che ha promesso un’interrogazione parlamentare ma non ne ho saputo niente. La Regione Puglia ci ha consigliato di chiedere il risarcimento appena l’indagine in corso per disastro colposo indicherà un responsabile. I politici non se ne fregano niente della nostra situazione, sanno solo dirci che Taranto non può fare a meno dell’industria che crea lavoro.

E invece?

È vero che tanti lavorano nell’industria ma è vero pure che tanti come me vivono di campagna e allevamento. Non mi piace che si faccia differenza fra posti di lavoro di serie A e posti di serie B. I politici, ma anche la gente comune schiava del ricatto occupazionale, sottovalutano il problema ambientale di questa città. Chi ci amministra sa benissimo che se l’Ilva fosse smantellata, ci vorrebbero 50 anni per bonificare i terreni, così i tarantini avrebbero comunque da lavorare.

Quanti anni ha la sua azienda?

La masseria Carmine esiste dai primi dell’800, mio nonno la comprò negli anni ‘40, poi è passata a mio padre Angelo che oggi la gestisce con me e mio fratello.

Quanto dista dall’Ilva?

In linea d’aria un paio chilometri. L’ho vista nascere, l’Ilva. Ha invaso i nostri terreni, ne espropriò parte a mio nonno, dove oggi sorgono le colline frangivento, come le chiamano: dovrebbero fare da barriera alle polveri ma figuriamoci... Da poco ci hanno messo sul tetto un deposimetro per misurare gli inquinanti. E i primi risultati non sono affatto incoraggianti.

Avete mai pensato di trasferirvi?

Sì ma non è una scelta facile né economicamente né sentimentalmente. Io sono nato qua e abbiamo fatto sacrifici per restare in campagna. Pensavamo di respirare aria pulita lontano dalla città e invece stiamo peggio degli altri. Eppure qui, senza l’Ilva ci sarebbe un panorama...lo spettacolo del mar Piccolo e di Taranto illuminata di notte. Poi mi giro dall’altra parte e vedo le ciminiere dell’Ilva, bestiale come un girone dell’inferno dantesco.

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