Saddam e gli Usa, alleati a tutto gas

Il regime iracheno ha usato armi chimiche contro i nemici interni ed esterni per dieci anni, ma solo dopo l'invasione del Kuwait questo è diventato un problema per i media
17 marzo 2003
Fabrizio Tonello
Fonte: Il Manifesto
Non c'è dichiarazione di George Bush o di Tony Blair in cui manchi il riferimento al fatto che «Saddam Hussein ha gasato il suo stesso popolo». Il che è vero, se si omette di precisare che ciò è avvenuto con la sostanziale approvazione degli Stati uniti e della Gran Bretagna. Oggi, i governi di Washington e Londra, saturano i mass media di propaganda costruita su un crimine di cui nel 1988 sono stati complici. Già quattro anni prima, il primo aprile 1984, il Washington Post non aveva manifestato alcun orrore di fronte alle prime notizie di uso di armi chimiche da parte degli iracheni, che nel 1980 avevano invaso l'Iran. L'articolo di Ted Gup, infatti, aveva l'ironico titolo «La condotta poco sportiva dell'Iraq» e tutto il testo era fitto di metafore sportive che mandavano al lettore un unico messaggio: sì, gli iracheni stanno violando le regole ma in amore e in guerra tutto è lecito. Un altro articolo nello stesso periodo (6 marzo 1984) riferiva delle condanne ufficiali dell'amministrazione Reagan, ma aggiungeva che «in privato» i funzionari dell'amministrazione erano meno severi (Privately, some officials were less harsh on the Iraqis), di cui giustificavano l'azione per respingere le «orde umane» degli iraniani.

Il 16 marzo 1988 aerei iracheni attaccarono la città di Halabja, nel nord dell'Iraq a maggioranza curda, sganciando bombe che diffondevano gas tossici: certamente iprite, forse anche altri agenti chimici. Le foto dei bambini e delle donne uccise, dopo qualche settimana, fecero il giro del mondo grazie a cameramen della tv francese. Ancora oggi, l'orrore per i cinquemila civili massacrati in questo modo rimane vivo. Ci vollero alcuni giorni prima che la notizia arrivasse sui giornali americani, imbarazzati dal doversi occupare delle malefatte di un alleato. Il 26 marzo, l'opinionista del Washington Post Jim Hoagland scrisse che «l'amicizia di Washington con Baghdad probabilmente sopravvivrà a una nottata di gas velenosi e di immagini televisive rivoltanti». Qualche giorno dopo, il 29 marzo, lo stesso giornale pubblicò un articolo molto dettagliato sugli effetti dei gas. L'articolo, tuttavia, venne pubblicato nella pagina della scienza ed era privo di qualunque apparente emozione nel riferire sul caso. L'autore, Philip Hilts, si limitava a ricordare che gli iracheni avevano già usato armi chimiche nel corso della guerra contro l'Iran e a registrare le smentite irachene. Il giorno dopo, il 30 marzo, un breve dispaccio d'agenzia riferiva senza alcun tono di condanna delle minacce irachene di usare i gas su larga scala contro le citttà iraniane.

All'epoca, l'amministrazione Reagan non sembrava guardare all'episodio in termini morali: il dipartimento di Stato emise un blando comunicato in cui iracheni e iraniani venivano messi sullo stesso piano e la condanna dell'uso dei gas era puramente formale. Il Pentagono fece anche di più: le solite «fonti ben informate» fecero sapere ai giornali che entrambi i contendenti avevano usato armi chimiche. Un articolo del Washington Post del 5 aprile 1988 si dilungava sulla proliferazione di missili balistici in paesi come l'Iran, l'Iraq, la Siria, la Cina e la Corea e solo nell'ultimo paragrafo affrontava il tema di Halabja, in maniera fredda e «oggettiva», avallando la tesi che entrambi i contendenti erano responsabili, anzi insinuando che gli iracheni avrebbero usato i gas solo per «finalità difensive». Il 20 aprile 1988, un editoriale del Washington Post definiva «un successo» l'azione della marina americana che aveva affondato alcuni battelli iraniani come risposta alla posa di mine nel Golfo. L'editoriale definiva «barbarica» l'azione irachena del 16 marzo, ma non manifestava alcun dissenso verso l'amministrazione Reagan che aveva impedito un dibattito all'Onu sulle armi chimiche, né sembrava disapprovare il sostegno diplomatico, finanziario e militare al regime di Saddam Hussein, nonostante quelle che definiva «pratiche barbariche».

L'alleanza tra Washingtone e Baghdad sopravvisse: qualche mese dopo (13 dicembre) il Christian Science Monitor rilevò che l'Iraq «non aveva pagato alcun prezzo diplomatico per le sue azioni». Nel 1989, in giugno, una delegazione di 23 uomini d'affari in rappresentanza di banche e aziende americane il cui fatturato globale superava i 500 miliardi di dollari arrivò a Baghdad per stringere nuovi rapporti commerciali. Il 12 aprile 1990, cinque senatori, tra cui Bob Dole che nel 1998 sarebbe stato il candidato repubblicano alla presidenza, incontrarono Saddam Hussein per ribadire la volontà di Bush (padre) di migliorare i rapporti con il regime.

La mancanza di interesse dei media per l'uso delle armi chimiche quando Saddam Hussein era un alleato degli Stati uniti fu palpabile fino al giorno dell'invasione del Kuwait. Quando l'Iraq invase questo protettorato americano, il tono dell'amministrazione Bush cambiò di colpo, e quello dei grandi giornali e delle reti televisive si adeguò immediatamente. Troppo impegnati ad amplificare le storie fasulle create dalla Casa Bianca e dalle agenzie di pubbliche relazioni come la Hill & Knowlton, i media americani ignorarono completamente una lettera dell'agente israeliano Jay Pollard, condannato nel 1986 da un tribunale americano per spionaggio a favore di Israele. Pollard scriveva nel febbraio 1991 che le foto top secret da lui passate agli israeliani «costituivano una prova irrefutabile che l'Iraq era davvero impegnato nella produzione e nell'uso su larga scala di armi chimiche. Ciò che preoccupava realmente l'amministrazione Reagan era di (...) dover ammettere che aveva tacitamente acconsentito alla creazione di un'industria irachena di armi chimiche» (Wall Street Journal, 15/2/1991).

Ovviamente Pollard cercava di giustificare il suo operato, ma il sostegno indiretto e segreto di Washington a Saddam Hussein per tutti gli anni Ottanta è innegabile. Questo sostegno non venne mai meno nonostante l'uso di gas tossici da parte di Saddam Hussein. Del resto, come ha rivelato il Guardian dieci giorni fa, se da parte di Reagan e Bush padre si acconsentiva tacitamente allo sviluppo di armi chimiche, il governo Thatcher segretamente autorizzò la costruzione della fabbrica di Falluja 2, quella oggi definita da Colin Powell come «la prova decisiva» della natura e delle intenzioni del regime iracheno. Forse è bene ripeterlo: furono gli inglesi a costruire Falluja 2 nonostante sapessero a cosa serviva. Un alto funzionario del Foreign office, Richard Luce, scrisse l'8 marzo 1985 al ministro del commercio estero Paul Channon: «Gli esperti del ministero della difesa ci dicono che la fabbrica potrebbe essere usata per produrre agenti chimici bellici». Luce incontrò Channon il 18 marzo, ma questi rifiutò di bloccare la costruzione perché «il rifiuto danneggerebbe le nostre prospettive commerciali in Iraq». Non fidandosi della capacità degli americani di tenere il segreto, il governo Thatcher tenne nascosto il suo ruolo nella vicenda anche all'amministrazione Reagan, benché fosse dubbio che gli Stati uniti, impegnati a sostenere l'Iraq con miliardi di crediti che permettevano a Saddam di sopravvivere, avessero qualcosa da obiettare.

Esattamente tre anni dopo la decisione del governo inglese, i gas prodotti grazie a Falluja 2 furono dispersi sopra la città curda di Halabja. Oggi, il ministro Paul Channon è diventato Lord Kelvedon, siede alla Camera dei lord ed è favorevole alla guerra.
Note: http://www.ilmanifesto.it

Articoli correlati

  • Ucraina: la disinformazione della Nato
    Editoriale
    A chi è giovata?

    Ucraina: la disinformazione della Nato

    I soldati ucraini sono stati spinti a sacrificarsi per una vittoria che si è rivelata un'illusione. La speranza di una Caporetto per le truppe russe si è rovesciata nel suo opposto e ora si profila l'incubo di una Caporetto per gli ucraini.
    8 aprile 2024 - Alessandro Marescotti
  • Ucraina: una guerra pianificata per i media
    MediaWatch
    Alcuni soldati stanno rompendo il silenzio e raccontano la verità

    Ucraina: una guerra pianificata per i media

    In un'era di Open Source Intelligence, gli analisti conoscono il campo di battaglia con grande precisione e costruiscono mappe digitalizzate. Ma alla gran parte dell'opinione pubblica viene fornita un'informazione orientata alla propaganda che non corrisponde alla realtà
    20 dicembre 2023 - Alessandro Marescotti
  • Guerra e disinformazione: piccola guida di autodifesa
    MediaWatch
    Come viene costruita la percezione mediatica dei conflitti militari

    Guerra e disinformazione: piccola guida di autodifesa

    La narrazione mediatica in ambito militare è un potente strumento per modellare le percezioni del pubblico e influenzare il sostegno o l'opposizione alle operazioni militari. La verifica delle notizie richiede tempo e attenzione, ma è fondamentale per non farsi manipolare da false informazioni.
    11 ottobre 2023 - Alessandro Marescotti
  • La controffensiva ucraina: realtà effettuale e narrazione mediatica
    MediaWatch
    La battaglia per influenzare la percezione della guerra in un'analisi del Washington Post

    La controffensiva ucraina: realtà effettuale e narrazione mediatica

    L'Ucraina aveva l'obiettivo di rompere le difese russe e avanzare. Tuttavia, la realtà sul campo ha dimostrato quanto sia difficile sconfiggere i russi che si avvalgono di trincee fortificate e di tattiche di "difesa elastica", in un ciclo incessante di avanzate e ritirate che frenano gli attacchi.
    8 ottobre 2023 - Alessandro Marescotti
PeaceLink C.P. 2009 - 74100 Taranto (Italy) - CCP 13403746 - Sito realizzato con PhPeace 2.7.15 - Informativa sulla Privacy - Informativa sui cookies - Diritto di replica - Posta elettronica certificata (PEC)