Una scomoda verità
I sindacati a Taranto (e non solo) non hanno chiesto sistemi di produzione innovativi e puliti perché avrebbero aumentato l'automazione e ridotto drasticamente l'occupazione. E così hanno preferito le vecchie produzioni ottocentesche dove i lavoratori si ammalano.
Marvin Kenney e Richard Florida hanno messo a confronto, in un loro elaborato, due impianti siderurgici con sede a breve distanza l'uno dall'altro. Il primo è un antiquato complesso di vecchi capannoni arrugginiti che ospita centinaia di operai che lavorano in un ambiente quasi dickensiano. Coperti di grasso e fuliggine, lavorano attorno a vecchi altoforni che fondono metallo. Il pavimento fangoso è disseminato di pezzi arrugginiti, utensili abbandonati e contenitori di prodotti chimici, in mezzo a un rumore assordante. Il secondo impianto è una struttura di un bianco accecante, con un aspetto più da laboratorio che da fabbrica. All'interno le bobine di lamiera escono da macchine verniciate in colori brilanti. Al centro dello stabilimento si trova una gabbia di vetro piena di computer e di attrezzature elettroniche, gestite da lavoratori che indossano tute immacolate. Nessuno tocca direttamente l'acciaio: il processo è quasi del tutto automatizzato.
Jeremy Rifkin, estratto dal libro "La fine del lavoro"
Esiste una verità scomodissima in campo siderurgico: si può produrre acciaio in modo pulito aumentando l'automazione e allontanando gli operai dalle emissioni nocive, che avverrebbero in un ciclo chiuso. Ma questo richiede stabilimenti con un'automazione spinta, in cicli produttivi completamente ridisegnati, in cui il contatto con l'inquinamento dei pochi lavoratori presenti è praticamente nullo. Il nuovo sistema di produrre acciaio, confrontato con il vecchio, ce lo racconta Jeremy Rifkin.
La piramide di Cheope fu costruita con il lavoro disumano di 100 mila persone, oggi si potrebbe costruire con 500 lavoratori e 14 gru.
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