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Il modello di sviluppo centrate sulle industrie pesanti lascerà un'eredità maledetta

Un futuro di lavoro pulito

Non è vero che per fame si accetta tutto: in India una città si oppone a una maxi acciaieria. Non dimentichiamo il mea culpa del presidente Napolitano: bisognava considerare anche le conseguenze negative dell'industrializzazione.
10 luglio 2010
Alessandro Marescotti (presidente di PeaceLink e componente di Altamarea)
Fonte: Corriere del Giorno del 10/7/2010, inserto speciale "50 anni di acciaio"

Sono nato a Taranto nel 1958. Non c'era ancora l'Italsider. Poppando dal seno di mia madre non ho bevuto diossina di origine siderurgica. Ma nel latte materno c'era il cesio 137 radioattivo degli esperimenti nucleari che allora si effettuavano in atmosfera. Nel 1963 è nata mia sorella e quell'anno fu firmato il Trattato sull'interdizione degli esperimenti nucleari nell'atmosfera. Da quell'anno in poi i bambini si risparmiarono un po' di radioattività nel latte. Ma a Taranto, a compensare questo fatto positivo, ci pensò l'Italsider che – ignari tutti gli abitanti - cominciava a spargere a piene mani diossina sulla città. Sono le contraddizioni della storia che abbiamo vissuto. Una storia che in questi 50 anni ci ha sovrastato con le sue logiche militari ed economiche. Una storia così invadente che è entrata persino nel latte che abbiamo bevuto fin da piccoli.
Ed è venuto il momento di fare un bilancio di questi 50 anni a Taranto. Cercherò di delineare un resoconto anche con l'occhio rivolto al futuro. Una foto dell'Ilva


Credo che un'analisi lucida del nostro passato sia stata compiuta dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il 13 ottobre 2007 il Corriere del Giorno riportava il “mea culpa” di Napolitano sull'Italsider. Un ragazzo, Mirko, gli aveva chiesto se lui in passato avesse avuto sensibilità per i problemi della natura. La risposta di Napolitano fu sincera: “Ho peccato anch’io. Ricordo che mi diedi molto da fare, e partecipai alle battaglie, perché si costruisse il grande impianto siderurgico a Taranto. Abbiamo imparato, dopo, che bisognava essere più prudenti, e che bisognava mettere nel conto anche tutte le conseguenze negative dell’industrializzazione”.
Condivido l'analisi di Napolitano. Il tipo di sviluppo basato sull'industria pesante ha talmente inquinato il suolo che per effettuare una bonifica occorrerebbe una Finanziaria. E' stato probabilmente un progetto in perdita se calcoliamo quelli che gli economisti definiscono i “costi esterni”: ambientali e sanitari.
E' un calcolo tutto da fare, a somma ignota. Quanto sia compromessa l'aria lo stiamo comprendendo un po' alla volta. Il mare richiede ancora degli studi. Ma il vero punto interrogativo sono le viscere della terra. Cosa è finito sotto quell'area che per cinquant'anni ha ospitato l'acciaieria, la raffineria, il cementificio, le centrali elettriche, le discariche? Sotto c'è l'inferno che non conosciamo ancora. Quanto occorrerà per bonificarlo? Pensiamo solo agli sversamenti di apirolio, un liquido oleoso che conteneva i micidiali PCB, i policlorobifenili cancerogeni. Francesco Maresca, ex operaio Fiom dell'acciaieria ci ha raccontato: “Nello stabilimento siderurgico c'erano circa 1.200 trasformatori con 'apirolio'. Periodicamente occorreva svuotarli. Il vecchio liquido veniva generalmente sversato per terra o nei tombini. Alla fine degli anni '70 accadde una cosa incredibile. Arrivò dal Nord Italia nello stabilimento un uomo con una tuta protettiva, sembrava un astronauta, con una specie di scafandro. Disse che doveva maneggiare l'apirolio. Lo stupore fu enorme perché fino a quel momento non ci era stata fornita né protezione né informazione, lo toccavamo addirittura con le mani”.
Tra il 1982 e il 1996 si sono verificati diversi eventi di rotture, corti circuiti ed esplosioni di trasformatori ad apirolio, come riportato in una dettagliata relazione alla Magistratura dei chimici Roberto Giua e Maria Spartera. Quando apirolio è finito nelle viscere dell'area industriale? E quanto ancora è poggiato sul terreno che gli operai calpestano?
Stiamo lasciando alle future generazioni un'eredità maledetta. Occorrerebbe fare adesso uno studio sistematico e veritiero. Solo così capiremo l'entità dei “costi esterni” di questo sviluppo dissennato che ha devastato il territorio e la salute.

E veniamo alla questione “salute” su cui è in atto un tentativo di minimizzazione quasi che i “troppi morti per cancro” a Taranto siano un'invenzione degli ambientalisti.

Nella relazione INAIL di A. Miccio e R. Rinaldi dal titolo “La mortalità per neoplasie a Taranto: il rischio espositivo a sostanze cancerogene dei lavoratori della cokeria”, si legge: "Dall’osservazione della mortalità per neoplasie in relazione all’area di residenza si rileva che il quartiere più prossimo all’area industriale presenta valori di mortalità quasi tripli rispetto ad aree più distanti". La cattiva aria respirata a Taranto ha generato un eccesso di tumori: "Nei soggetti di sesso maschile più marcata è la mortalità per cancro ai polmoni rispetto alle altre neoplasie dove il dato relativo, vicino al 40%, risulta superiore alla media nazionale che è del 29% (dato del 1993); questa prevalenza viene osservata anche nella popolazione femminile”. Gli autori della relazione aggiungono: “Il dato più preoccupante è la tendenza ad incremento di questi valori, si passa infatti da 124 morti per 100.000 abitanti (1971) a 244 morti per 100.000 abitanti nel 1998. Siamo quindi di fronte ad un’incidenza pressoché raddoppiata in meno di 20 anni, ad un tasso molto più elevato di quello nazionale”.

Preoccupa inoltre il fatto che l'inquinamento da diossina avrà effetti che potranno essere valutati pienamente sono nei prossimi decenni per via degli effetti a lungo termine di questa sostanza cancerogena e genotossica che si bioaccumula nell'organismo con effetti di incalcolabile portata per la salute della future generazioni dato che il rischio viene ereditato dai bambini con il Dna “intaccato” dalla diossina.

Quello che è accaduto a Taranto in questi 50 anni è stato frutto non della povertà e della disperazione ma dell'incoscienza. Tuttavia “alcuni” sapevano e non hanno agito. La città è stata chiusa ermeticamente in una bolla di ignoranza. Una bolla in cui la percezione del rischio è stata attutita e quasi annullata. Ma non tutti i poveri sono incoscienti al punto da bersi PCB come è successo a Taranto, dove i contenitori per l'apirolio venivano addirittura usati per conservare il vino e l'olio. Ad esempio c'è chi, anche se povero, ha la dignità per ribellarsi. E' il caso dell'India, dove un'intera regione si sta mobilitando contro il progetto di una maxiacciaieria, quella della multinazionale sudcoreana Posco. Ha una capacità produttiva superiore all'Ilva. Lì dal novembre 2007 gli abitanti del villaggio indiano di Dhikia hanno occupato le terre dove dovrebbe sorgere lo stabilimento. Il governo indiano ha dovuto inviare le forze armate. Gli abitanti hanno eletto un sindaco anti-Posco, contrario al progetto. E' un'esperienza che smentisce l'idea che un popolo affamato accetterebbe di tutto. Viene anche da chiedersi: cosa accadrà in futuro a Taranto se prenderanno slancio questi colossi siderurgici in Asia?
Il destino dell'Ilva nella nostra città sarà deciso proprio da queste dinamiche che governano la globalizzazione e dalle lotte sociali in corso.
Se dovessero prendere piede le maxiacciaierie dell'India e della Cina il futuro dell'Ilva di Taranto non sarà roseo. Non c'è solo la pressione dei cittadini di Taranto per avere più salute e più ambiente. C'è anche questo scenario di trasformazione della siderurgia mondiale. Via via si ridurranno gli spazi di mercato dell'Ilva per come la conosciamo oggi. O l'Ilva si posizionerà sul mercato investendo sulla qualità ambientale e sull'innovazione, come hanno fatto varie acciaierie europee, oppure subirà una drammatica concorrenza sulla fascia bassa e dequalificata del mercato.
Uno studio internazionale del Wwf evidenzia che la aziende che si basano su sviluppo ecocompatibile, mobilità sostenibile, servizi per l'efficienza energetica, producono 3,4 milioni di posti di lavoro, mentre i posti di lavoro basati sui settori inquinanti sono 2,8 milioni. In sostanza in Europa i lavori puliti “battono” i lavori sporchi. E' questo il futuro.
Con i lavori che inquinano siamo destinati unicamente al declino. Taranto deve pertanto riprogettare il suo sviluppo diversificando la base produttiva e puntando sulla green economy non solo per ragioni ecologiche ma per ragioni anche economiche. Continuare a scommettere ancora solo sull'acciaio mentre avanzano le tigri della siderurgia asiatica è un azzardo economico che espone la città agli spietati quanto inevitabili colpi di coda della globalizzazione. Il tempo a disposizione per riprogettare il futuro per questa città è veramente poco.

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