Una vicenda sempre più ingarbugliata dopo la condanna per disastro ambientale

Chi è oggi il proprietario dell'ILVA?

C'è chi ritiene che gli impianti dell'ILVA siano dello Stato e chi invece sostiene che non sia affatto così; lo Stato gestirebbe solo la loro conservazione, mediante la prosecuzione o la riconversione delle attività imprenditoriali. E vi è un limite temporale, oltre il quale c'è il fallimento.

Manifestazione a Taranto

Un tempo i proprietari degli impianti siderurgici di Taranto e Genova erano i Riva.

Poi è arrivato il ciclone Ambiente Svenduto. L'inchiesta, gli arresti, il processo e infine le condanne in primo grado.

Che l'ILVA di Taranto e quella di Genova non siano più nella disponibilità dei Riva è cosa evidente.

Ma non è semplicissimo rispondere alla domanda: di chi sono gli impianti dell'ILVA oggi?

Vi è chi sostiene che gli impianti siano attualmente di proprietà pubblica e che facciano capo all’Amministrazione straordinaria.

Ma vi è anche chi sostiene che quegli impianti non siano di proprietà pubblica. "Sono pro tempore - scrive Giampietro Castano - in capo a “Ilva spa in A.S.” la quale – in ottemperanza ai dettati della “Legge Marzano” (L. n 39 del 18 febb 2004) e attraverso gli organi previsti dal Dlgs 270/199 (Commissari e Comitato di sorveglianza) – ha un obiettivo molto chiaro: la conservazione del patrimonio produttivo, mediante prosecuzione, riattivazione o riconversione delle attività imprenditoriali".

E ancora: "Vi è un limite temporale entro il quale tali obiettivi debbono verificarsi, al termine del quale la società deve essere ceduta a nuovo imprenditore attraverso bando pubblico (cosa avvenuta solo parzialmente perché il tutto è ancora “affittato” fino al 2022). Se non si raggiunge l’obiettivo, i beni della società verranno sottoposti ai principi del fallimento".

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Abusando della pazienza dei lettori approfitto per approfondire alcuni temi dopo le affermazioni del Dott. Castano circa la natura non pubblica del compendio dell’ex Ilva. L’affermazione del Dott. Castano secondo cui avrei commesso una “grave inesattezza”, affermando più volte che quel compendio impiantistico sia divenuto di proprietà pubblica in capo all’Amministrazione straordinaria, stimola ulteriori precisazioni di carattere giuridico, storico e politico. Peraltro l’autorevolezza del mio interlocutore – il Dott.Castano è stato per lunghi anni infaticabile ed efficace coordinatore della unità per le crisi aziendali presso il Mise, ottenendo spesso risultati produttivi e occupazionali positivi che tutti gli hanno riconosciuto – mi obbliga ad approfondimenti che si spera possano essere utili a una migliore focalizzazione delle vicende del Gruppo Ilva, controllato dalla Riva Fire, a partire dal 26 luglio 2012, giorno in cui venne posta sotto sequestro senza facoltà d’uso l’area a caldo del siderurgico ionico: vicende che, per il loro intreccio di provvedimenti giudiziari e legislativi, ci sembra opportuno sottolinearlo, non hanno precedenti nella storia dell’industria italiana, almeno a partire dal secondo dopoguerra.

Il Dott. Castano ricorda giustamente che gli impianti dell’Ilva sono pro tempore in capo a Ilva S.p.A. in A.S. la quale – in ottemperanza ai dettati della Legge Marzano (l.n. 39 del 18 febbraio 2004 e attraverso gli organi previsti dal Dlgs 270/199 – Commissari e Comitato di sorveglianza) – ha un obiettivo chiaro, costituito dalla conservazione del patrimonio produttivo, mediante prosecuzione, riattivazione o riconversione delle attività imprenditoriali. Aggiunge il Dott. Castano che vi è un limite temporale entro il quale tali obiettivi devono verificarsi, al termine del quale la società deve essere ceduta a un nuovo imprenditore attraverso bando pubblico. Se non si raggiunge l’obiettivo i beni della società verranno sottoposti ai principi del fallimento. Così facendo, si tenta il salvataggio dell’azienda in crisi, anche al fine di tutelare nel modo migliore i creditori di Ilva. Lo Stato dunque – conclude il Dott.Castano – svolge “compiti di sorveglianza” previsti dalla legge, ma non è il proprietario dell’Ilva.

Ora ci sembra opportuno ricordare che l’ammissione “immediata” dell’Ilva alla procedura di amministrazione straordinaria avvenne con decreto del ministro dello Sviluppo economico del 21 gennaio 2015, trasmesso immediatamente al Tribunale di Milano, su istanza depositata – a norma dell’art.2 commi 1 e 2 ter del decreto legge 347 del 23 dicembre 2003, convertito con modificazioni nella legge 18 febbraio 2004 n. 39, più nota (almeno per gli addetti ai lavori), come Legge Marzano dal nome dell’allora ministro dello Sviluppo economico – dal Dott. Pietro Gnudi nella sua qualità di Commissario straordinario dell’Ilva S.p.A., nominato si sensi del decreto legge 4 giugno 2013 n.61.

Ma come si era giunti alla nomina di Piero Gnudi a Commissario straordinario dell’Ilva? Perché in precedenza vi era stato un provvedimento della Magistratura di Taranto di sequestro preventivo dei beni della capogruppo Riva Fire, per un importo di 8,1 miliardi di euro – somma ritenuta pari ai danni arrecati all’ambiente e ai cittadini dalla gestione di Riva del siderurgico – provvedimento di sequestro che aveva portato alle dimissioni del Consiglio di amministrazione, creando così le premesse per l’emanazione del decreto del 4 giugno 2013 n. 61 che de iure e de facto spossessava” alla proprietà la gestione dei suoi beni aziendali.

All’epoca, si era ai tempi del Governo Letta, vi furono (basti guardare la stampa dei quei giorni) forti perplessità per l’adozione di una misura di commissariamento che affidava al Commissario straordinario il mandato di garantire la continuità dell’attività industriale, utilizzando le risorse dell’impresa per coprire i costi dei danni che all’Ilva – sulla base delle indagini degli organi inquirenti tarantini, supportate da specifiche perizie, ma senza che vi fosse stata ancora al riguardo una qualche sentenza processuale sia pure di 1° grado – si imputava di aver arrecato alla salute dei cittadini e all’ambiente nel capoluogo ionico, violando le disposizioni dell’Autorizzazione integrata ambientale. 

E con quel provvedimento si finiva col coinvolgere a suo danno anche l’azionista di minoranza dell’Ilva, ovvero il gruppo Amenduni, mai inquisito né coinvolto nelle vicende giudiziarie che stavano interessando la società partecipata.

Alla luce poi delle sempre più precaria situazione finanziaria dell’Ilva, il 5 gennaio del 2015 il Governo emanava il decreto legge 1/2015 con il quale adottava una procedura d’insolvenza ad hoc per l’Ilva, come ricorda anche la decisione della Commissione europea 1498/2018. Tale procedura ad hoc è stata redatta sul modello della cosiddetta Legge Marzano in materia di diritto fallimentare che disciplina l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in difficoltà. Di conseguenza il 30 gennaio del 2015 il Tribunale di Milano dichiarò l’Ilva insolvente: un’insolvenza che – si badi bene – non aveva determinato la gestione della vecchia proprietà ormai spossessata della conduzione aziendale dal decreto n.61 del 4 giugno del 2013 e che risultava pari a 2,9 miliardi di euro. 

Il Governo nominò tre commissari straordinari incaricati di amministrare l’impresa. E il 4 dicembre 2015 l’Esecutivo approvò il decreto legge 191/2015 recante disposizioni urgenti per la cessione a terzi dei complessi aziendali del gruppo Ilva tramite gara trasparente e non discriminatoria, tale da garantire la discontinuità rispetto all’impresa precedente.(il corsivo è nostro). Cioè si escludeva esplicitamente che alla gara potesse partecipare il Gruppo Riva che nel frattempo aveva subito per volontà dei suoi azionisti un processo di riassetto impiantistico e finanziario, dal cui perimetro ovviamente era stato escluso il compendio costituito dall’intero Gruppo Ilva.

Abbiamo voluto ricordare questi passaggi per evidenziare come ci sembri evidente che dal commissariamento del 4 giungo 2013 in poi sia avvenuto de facto, anche se non sempre ineccepibilmente de iure, uno spossessamento di gestione di beni impiantistici di proprietà del Gruppo Riva che – con il già menzionato decreto legge 191 del 4 dicembre 2015, convertito poi nella legge 1 febbraio 2016 n. 13 – si stabiliva di vendere così da garantire la discontinuità rispetto alla impresa precedente. È vero allora che lo Stato tramite l’Amministrazione straordinaria “svolge compiti di sorveglianza sul bene”, ma nell’arco temporale di espletamento di tale sorveglianza, e alla luce di quanto detto in precedenza, si potrebbe negare che sia avvenuto un profondo e sostanziale mutamento degli assetti proprietari del Gruppo Ilva, tale ormai da configurare una loro proprietà pubblica, almeno sino alla alienazione definitiva ad un nuovo acquirente? Insomma a oggi il Gruppo Ilva sarebbe forse res nullius? 

Prof. Federico Pirro

(su ilsussidiario.net)

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A complicare ancora di più la faccenda c'è la confisca degli impianti dell'area a caldo (per il reato di disastro ambientale), disposta con condanna in primo grado nel processo ILVA, che graverà nel futuro come un macigno.

Quella dell'ILVA è una vicenda sempre più ingarbugliata in cui lo Stato deve fare i conti non solo con la condanna per disastro ambientale ma anche con la regolarità e la correttezza dell'uso dei beni, un tempo dei Riva.

Questi impianti, in particolare quelli dell'area a caldo, devono passare un dentro la cruna di un ago per dimostrare che hanno un futuro.

Da una parte devono dimostrare che non provocano un danno sanitario inaccettabile, epidemiologicamente parlando.

Dall'altra devono dimostrare che sono in grado di stare sul mercato, rispettando le regole del mercato, senza aiuto dello Stato, senza Pantalone che ne ripiana le perdite. Altrimenti scatta l'articolo 107 del Trattato di funzionamento dell'UE che vieta gli aiuti di Stato.

A queste condizioni appare molto difficile che l'ILVA abbia un futuro e che passi per la cruna dell'ago. Tanto più che gli stessi esperti discettano su chi sia oggi il proprietario dell'ILVA.

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