L'Ilva avvelena. Dille di smettere
Qualche considerazione a proposito «dell'etica dell'impresa» di cui tutti adesso, sotto l'incalzare della crisi dei mutui americani, si riempiono la bocca, il più delle volte fregandosene della più elementare decenza, essendo stati fino all'altro ieri cantori degli «spiriti animali» del capitalismo.
Partiamo da casa nostra, e più in particolare dallo stabilimento dell'Ilva di Taranto.
La città dei due mari - meglio nota ormai come la città del siderurgico - è una delle poche al mondo in cui il primo pensiero di chi si sveglia la mattina è: che vento tira oggi? E non per antiche abitudini marinare, ma per capire quanto veleno tocca respirare. Nei giorni di tramontana, infatti, i fumi dell'Ilva investono in pieno la città, fregandosene di zone chic e zone popolari. Alcuni miei amici che abitano all'ultimo piano di un elegante palazzo nei pressi dell'Archita, in certi giorni non possono nemmeno aprire le finestra per non essere coperti da una polvere rossiccia che ti si ficca nella pelle. E questo a tacere della diossina - che finisce nel latte materno - e di tutti gli altri delicati aromi che profumano l'alito del mostro d'acciaio e che ti minano la salute.
Senza scomodare la buonanima di Adriano Olivetti: si può dire etica un'impresa del genere? Un'industria che ha reso Taranto una delle città più inquinate d'Europa, e forse del mondo? Che ha seminato neoplasie da Guinnes dei primati?
Credo proprio di no. E lo scandalo è tanto maggiore se si pensa che l'Ilva macina profitti su profitti e soprattutto che ci sarebbero gli strumenti tecnici per limitare gli effetti di un inquinamento così disastroso. Secondo alcuni esperti, aggiungendo urea al processo produttivo si potrebbe portare la soglia di diossina a quei parametri europei (0,4) che altre regioni in Italia hanno già adottato, vedi il Friuli Venezia Giulia. Non solo, volendo la diossina potrebbe arrivare allo 0,1. Quasi niente.
Basterebbe solo ricordarsi che la legittima produzione di profitto non può andare a discapito della gente. Che l'impresa, qualunque impresa, ha anche una finalità sociale e non ha il diritto di seminare morte in ogni famiglia (senza andare a cercare tanto lontano: mio padre è morto di cancro ai polmoni e lavorava all'Italsider).
Dice il presidente Vendola: «Non si vince la sfida con la globalizzazione impugnando l'arma del bed & breakfast. Oppure l'artigianato. O anche la pizzica». Giusto. Ma chi ha esasperato gli animi? Chi ha trattato Taranto con lo stesso sprezzo coloniale con cui si delocalizzano le imprese più nocive nella pattumiera del terzo mondo? Davvero ci si deve meravigliare se la gente non ne può più? Se vorrebbe liberarsi di un tale incubo a botte di referendum, pur sapendo che ci sono dei prezzi pesantissimi da pagare in termini di occupazione? Allora poche chiacchiere: o si adottano, subito, misure risolutive dell'inquinamento, facendo dell'Ilva una vera risorsa della città, o sarà davvero troppo tardi.
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