Informazione Lavoro e libertà di stampa. L'inchiesta del sindacato

I giornalisti precari si raccontano nel Libro

Esce l'edizione aggiornata del «Libro bianco sul lavoro nero», le storie raccontate in prima persona dai redattori precari e sommersi dell'informazione. Notizie pagate 2 euro lordi, pezzi a 5 euro. I profitti degli editori crescono mentre il contratto è fermo da due anni e chi sta al margine peggiora le proprie condizioni lavorative
12 dicembre 2006
Antonio Sciotto
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Una notizia vale quanto un chilo di zucchine, 2 euro. La grandissima parte dei giornalisti italiani se la passa peggio dei ragazzi dei call center - simbolo stesso della precarietà - pagati quando (e se) capita da padroni che non assumono mai. Un esercito di precari e lavoratori in nero che ha ormai superato il livello di guardia, affondando la qualità e la libertà dell'informazione del nostro paese. Ieri a Roma, la Fnsi - il sindacato dei giornalisti - ha presentato l'edizione aggiornata del Libro bianco sul lavoro nero, storie di violazioni e soprusi nel mondo dell'informazione. Una raccolta di autograbiografie del precariato, dove gli «invisibili» - travestiti da fantasmi alle manifestazioni - si raccontano in prima persona, scrivendo una volta tanto di sé stessi, e di un lavoro senza futuro. Un libro che era già uscito 5 anni fa, ma che con l'avvento della legge 30 e della deregulation sempre più selvaggia del settore (primi responsabili gli editori, che da oltre 2 anni negano il rinnovo del contratto) è stato arricchito e quasi riscritto daccapo, dato che ormai la precarietà e il sommerso sono la condizione caratterizzante dell'editoria, e i giornalisti «garantiti» restano quasi un residuato storico del secolo scorso.
I numeri parlano da soli: sono soltanto 12.500 i lavoratori dipendenti nelle più varie redazioni (dalla stampa a Internet, dalla tv alla radio), a fronte di circa 30 mila lavoratori precari. I primi sono i dati ufficiali dell'Ordine dei giornalisti, i secondi vengono da una stima sugli iscritti alla cosiddetta «gestione separata» dell'Inpgi, l'istituto di previdenza dove versano i contributi tutti i redattori parasubordinati e collaboratori in diverse forme. Gli iscitti alla cosiddetta «Inpgi 2» alla fine del 2005 sono risultati 21.171, ma tra questi la vera «fascia a rischio» è composta da 10 mila lavoratori che non raggiungono i 700 euro lordi di compenso al mese. Inoltre, i soli dati Inpgi non bastano: ci sarebbero infatti altre diverse migliaia di giornalisti che lavorano senza versare contributi di alcun tipo, e che dunque sono «invisibili» alle stesse statistiche. E' il mondo del lavoro nero e del pagamento a pezzo, ancora più sfruttato (se possibile) rispetto a chi ha almeno un contratto da cococò. Bisogna infine aggiungere 2500 disoccupati.
Paolo Serventi Longhi, segretario nazionale dell'Fnsi, ha dunque sottolineato come il problema del precariato sia «ormai al centro, e già da qualche anno, delle rivendicazioni del sindacato». Gli editori della Fieg si rifiutano non solo di rinnovare il contratto (siamo ormai al 651esimo giorno dalla scadenza, sottolineavano ieri) ma anche di trattare con la Fnsi il tema dei precari: a parere della Fieg, il sindacato si deve occupare solo dei dipendenti, perché il resto sono lavoratori «autonomi». In pratica,, quello che succede nel resto del mondo del lavoro: camuffare normali dipendenti da «parasubordinati» o partite Iva, per avere mano libera.
Lavoro sfruttato e maxi profitti
Le storie raccolte nel libro stridono con i profitti in aumento delle imprese editoriali. Il fatturato del settore - spiega Serventi Longhi citando i dati ufficiali delle aziende e della Federazione concessionari pubblicitari - nei primi nove mesi del 2006 è cresciuto del 3,7%. In particolare, i quotidiani a pagamento hanno aumentato il ricavato della pubblicità del 2,6%, la free press del 10,6% e i periodici del 5,5%. Guadagni dorati, mentre i protagonisti del Libro bianco parlano di pezzi pagati 5, 7 o 10 euro lordi, di notizie retribuite 2 euro lordi. Nei casi in cui, ovviamente, a un pagamento si arrivi. Perché in moltissimi casi si viene retribuiti in grande ritardo rispetto ai 30 giorni dalla data della consegna imposti dalla legge: la media va dai 2 ai 3 mesi di ritardo, ma c'è anche chi ne aspetta 12 o più. E chi non vede mai denaro, sperando - dopo anni di «volontariato» - di riuscire a entrare.
Certo, la nuova generazione non è fatta di allocchi, e ha capito che sperare in un posto a tempo indeterminato è difficilissimo. Solo che, in mancanza d'altro, si accetta di restare «cottimisti» dell'informazione fino ai 40 e 50 anni, rischiando poi di accedere a una pensione da fame: se i cocoprò del privato, dopo le riforme dell'attuale governo, andranno a versare il 23% del compenso, i giornalisti cococò sono fermi al 12%, peraltro spessissimo tutto a carico loro. E, al solito, mancano la malattia, le ferie, la previdenza sanitaria.
I lavoratori intervenuti non si sono limitati al «piagnisteo» del precariato, ma hanno mostrato che la categoria - almeno alcune sue parti - ha raggiunto un elevato grado di «autocoscienza» del problema. Particolarmente lucido l'intervento di Andrea Rustichelli, giornalista poco più che trentenne, che ha parlato del precariato come di uno «stampo generazionale» che marchia quasi chiunque abbia oggi tra i 30 e i 40 anni, contagiando ovviamente anche le altre classi di età e persino i «garantiti». I tanti parasubordinati e cottimisti della notizia, quelli che inviano da fuori i pezzi alla redazione, sono i veri produttori del giornale, perché capita sempre più spesso che chi sta dentro la produzione non abbia neppure modo di scrivere e fare inchiesta, schiacciato alla catena della titolazione e del taglio dei pezzi. Non solo la libertà, ma così la stessa qualità del lavoro diventa schizofrenica, perché praticamente fa il giornale chi non ci lavora dentro. Secondo un'altra redattrice precaria, Simona Fossati, bisogna avere la certezza dei tempi di retribuzione, e un tariffario chiaro per il lavoro autonomo, con minimi sotto cui non si possa scendere. Toni Balbi parla a un altro esercito di sfruttati, i giornalisti che lavorano per gli uffici stampa delle istituzioni o negli staff dei politici. Lui lavora all'Inps, e viene fuori da una vertenza che ha visto l'istituto esternalizzare il gruppo di redattori pur di non riconoscere, come vuole la legge 150 del 2000, lo status e il contratto da giornalisti. Alberto Gaffuri, da Como, parla di una quarantina di cococò della Provincia che ricordano tanto il «caso Atesia»: un'ispezione dell'Inpgi ha riconosciuto che hanno diritto al lavoro dipendente, ma l'amministrazione vuole aggirare i verbali grazie a una serie di escamotage.
Da Bertinotti al «bollino blu»
Tanti gli interventi della politica alla presentazione del Libro, ma bisogna capire se il governo è davvero intenzionato a risolvere la piaga del precariato. Interessante la proposta di legge Folena-Giulietti, che ha il fine di legare le sovvenzioni pubbliche all'editoria soltanto alla regolarità dei contratti di lavoro, escludendo dunque tutti quei soggetti che utilizzassero rapporti a nero o una flessibilità non motivata. Una sorta di «bollino blu». Il sottosegretario Ricardo Franco Levi, in rappresentanza del governo, ha risposto che il tema potrebbe essere inserito nella proposta complessiva di riordino del settore editoriale che verrà presentata dall'esecutivo entro la prossima primavera. Per il momento, ha specificato, l'unico criterio per cui si possono escludere dei giornali è solo quello della regolarità dei versamenti contributivi per i dipendenti. Il segretario della Cgil Fulvio Fammoni ha parlato a nome del sindacato, affermando che una parte della soluzione sta certamente nella vertenza del contratto ma anche, come per il resto del mondo del lavoro, nella generale riscrittura delle leggi sul lavoro che il governo si è impegnato ad attuare. Il presidente della Camera Fausto Bertinotti ha spiegato che «ormai la precarietà è una forma di organizzazione del lavoro, come era la parcellizzazione al tempo del fordismo, ma che questo non significa affatto che dobbiamo accettarla come un fenomeno irreversibile». Il presidente della Camera si è augurato che «la prossima legge annunciata dal governo non parta solo dall'impresa editoriale, ma dalla parità dei due fattori: l'impresa e il lavoro».
Una conclusione sul manifesto, citato tra i padroni «cattivi» in una delle storie del libro, e qui il sottoscritto parla a nome del giornale. E' la storia di Giulio Di Luzio, che ci ha fatto causa chiedendo il pagamento dei pezzi secondo le tariffe m inime dell'Ordine dei giornalisti, chiedendo 143 milioni di lire a saldo del suo lavoro. Come Di Luzio sa bene, e come era stato detto all'inizio del rapporto di collaborazione, gli stipendi del manifesto sono ben al di sotto dei minimi contrattuali, così come i compensi dei collaboratori. Comunque, nel settembre del 2005 la vertenza si è chiusa con il pagamento di Di Luzio. Sarebbe stato opportuno, a questo punto, non diciamo ritirare la storia dal libro, ma perlomeno aggiornarla.

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