In diverse facoltà universitarie umanistiche italiane, i pedagogisti sperimentano una sorta di tradizione condivisa a livello culturale, da molto tempo, in rapporto al mondo delle storie di vita, delle geografie spazio/temporali, dei racconti autobiografici, tramite il metodo della cultura e pedagogia della memoria. Questa tradizione sottesa al filo sublime, impercettibile della memoria mette in contatto i vari pedagogisti degli atenei italiani, all’insegna di un’attenzione particolare ai temi di sociologia, pedagogia della soggettività e dell’individuo, dell’uomo e della donna, dinnanzi alle esperienze ed ai processi di formazione, all’interno di una quotidianità d’impegno nel lavoro sociale ed educativo. Autonarrazione, scavo interiore, ricerca in sé, attraverso l’ascolto di sé tramite l’altro, autocomprensione, comprensione circa la propria ed altruiunicità ed individualità sottratta, tramite la memoria della personale storia di vita, allo sfondo anonimo, piatto, indifferenziato, di molti luoghi e progetti comunitari. Attraverso la narrazione si cresce e si scoprono eventi legati alla quotidianità e circoscritti, compresi in avvenimenti globali, universali, collettivi, comunitari, Storici. Dunque la Storia non solo ripiegamento nostalgico e decadente rivolto al passato, ma con il racconto di sé diventa uno sguardo verso il futuro.
Memoria e deportazione: i perché della storia
La memoria è importante perché attraverso di essa sono ricostruibili storie, percorsi con cui ci si augura di correggere per tempo gli errori. Possiamo raccontare ai nostri giovani piccole storie esemplari di espropriazioni, di resistenza, una delle armi più straordinarie contro tutti i tipi di revisionismo storico, da quello più infame, ma forse più facile da combattere, il negazionismo perché talmente grossolano e stupido nelle sue argomentazioni, confutabile mostrando i documenti e facendo parlare i testimoni, a quello più raffinato del conteggio delle vittime. Il modo di combattere tali scuole revisioniste, che in Italia hanno i loro addentellati non solo nel campo degli storici, ma culturale, in genere, consiste nel non porre la questione unicamente sul piano numerico, che pure è fondamentale, perchè ci interroga profondamente, ma ponendo la questione sul piano qualitativo. Le giovani generazioni sono molto cambiate, sicuramente più superficiali, più incapaci di mantenere l’attenzione, ma la sensibilità dei ragazzi nei confronti di queste tematiche è ancora notevole, perché si innamorano delle storie di resistenza, delle vicissitudini umane di sofferenza che leggono nei testi e nelle testimonianze dei superstiti sopravvissuti ai lager. Attraverso la Pedagogia Narrativa, nel racconto di storie esemplari di sofferenza in narrazioni che stimolino questi ragazzi a reagire in metropoli sempre più indifferenti, razziste, xenofobe, sempre meno caratterizzate da tessuti sociali e politici che sostengano azioni concrete di vicinanza e solidarietà.
Forse mai capiremo la Shoah perché bisogna essere demoni per capirla e concepirla completamente, globalmente. Le spiegazioni economiciste e psicologiste si fermano ad un punto, perché oltre vi è l’elemento profondamente demoniaco, diabolico, e capire gli eventi fino in fondo, significa contaminarsi nell’orrore del fascino della barbarie. L’incapacità di capire non ci deve fermare. Dobbiamo entrare in una tensione di ricerca, indagine interrogativa: come è stato possibile?
Attraverso la Pedagogia concreta dei gesti è possibile forse comprendere cosa sono i fenomeni di espropriazione, alienazione, violenza. Il campo di sterminio è stato un laboratorio pedagogico dove i nazisti hanno cercato in tutti i modi di “costruire soggetti distrutti”: ossimoro, contraddizione in cui nasce un’antropologia, un settingpedagogico dove si formula l’annientamento, dove è possibile studiare le pratiche di resistenza nei campi, con la consapevolezza che chi ha resistito è riuscito, in qualche modo, a mettere in atto strategie, una contropedagogia, una ”pedagogia della resistenza”, minimale, infinitesimale, fatta di brandelli di piccoli gesti, minimi spazi, misere, povere cose, di tempi infinitesimali sottratti al tempo preciso, altamente sistematico, precostituito dello sterminio. Questo è il tentativo di raccontare, tramandare, narrare, la resistenza, la deportazione, la liberazione.
In questa Italia così disattenta, distratta, con forze politiche violentemente xenofobe ed incredibilmente razziste, con fazioni di destra più violentemente intolleranti, xenofobe di tutta Europa, il fatto che ancora certi ragazzi abbiano la forza di sottrarsi all’ottusità di capire, di ascoltare, risulta un fenomeno di forte positività per il futuro.
Adorno ha lapidato tutto il resto del nostro ‘900 dicendo:” dopo Auschwitz non è più possibile scrivere poesie”, ma il tempo della memoria non significa solo ricordare ai morti, a chi non è più presente, agli scomparsi, avere memoria significa mettersi di fronte alla ripresentificazione del tempo, renderlo vivo, farlo rivivere.
Questa trasformazione significa rimetterci dalla parte di quel tempo, quell’evento realmente accaduto con il diritto dell’ascolto, il dovere di capire, intendersi e domandare, chiedere il perché. “Non si può domandare donde viene il male, ma donde viene che noi lo facciamo” e da tale quesito partono tutti i nomi degli sterminati, degli scomparsi, per farci rendere conto del male dell’essere umano. Un punto d’arresto nell’evoluzione della storia, dove il racconto si paralizza ed incomincia a girare a vuoto, occupato dall’indicibile dell’orrore, dalla verità del terribile; e tutto questo accade perché sanno che l’arte, la poesia, in quanto testimonianza è la voce umana che rivela l’accaduto, ciò che è irriducibilmente umano, tentando l’incredibile, con la forza della creazione dell’arte, della poiesis, dell’invenzione fantastica, della cultura che accresce l’animo, opposta al nulla dello sterminio. Così l’arte e la cultura liberano dalla cecità delle dittature autoritarie, dispotiche, scioviniste, baratro della disperazione, antro di morte, opposta alla ragione che illumina.
La memoria come scelta etica.
Il termine memoria si usa e si abusa, risulta complesso in accezione quantitativa come facoltà che raccoglie e classifica tutto o memoria nel significato qualitativo: la memoria che alimenta l’essere vivente in noi.
Proust rivisse il suo passato nel ricordo, in quello che aveva personalmente già visto. In questo senso si considera la memoria proustiana basata essenzialmente sul rimemorare, il ricordare. Si può anche vivere quello che non si è personalmente vissuto. Sembra paradossale, ma è già nella Bibbia l’invito in questo senso. Nel Deuteronomio leggiamo “ricordati di ciò che ti ha fatto Amalek”, era il re che attaccò il popolo ebraico all’uscita dall’Egitto e aggredì tutti i più deboli della retroguardia. La Bibbia dice, appunto, ricorda che ora a centinaia di migliaia di anni di distanza ricordiamo quello che ci ha fatto Amalek e che ha fatto anche a te. Questa memoria che diventa storia, si aggiunge all’Historia che già conosciamo come raccolta e costruzione di fatti, eventi, documenti è una Storia che in ebraico si traduce "generazioni". La memoria che si tramanda di padre in figlio, di generazione ingenerazione, ed è una Storia che diventa testimonianza, il filo rosso della vita e dell’opera di Primo Levi. Tutti sappiamo che Levi pose una lancinante e lacerante distinzione tra sommersi e salvati che soli possono parlare del vissuto. Possono parlare, testimoniare solo quelli salvati che sono tornati. Quelli che invece non hanno fatto ritorno… a loro è stata tolta la vita e la parola. Proprio per questo la testimonianza di chi torna è ancora fondamentale. Molti tra i sopravvissuti ancora non riescono a parlare, dopo mezzo secolo, a trovare la parola per testimoniare. E’ necessario tentare di dar voce agli eventi attraverso la vita, l’esperienza diretta del soggetto, riscattare la sofferenza dalle cifre enormi, dalla terribile anonimità e rendere alle persone, ai singoli individui, come soggetti degni d’identità, il loro nome e cognome, ridare alla persona torturata la sua forma umana: è l’irriducibilità dell’esperienza di ciascuno che ha vissuto la deportazione di cui occorre avere profonda coscienza. Tutti conosciamo le cifre spaventose delle deportazioni e dello sterminio di massa, ma dobbiamo sapere che oltre le cifre esistevano individui, persone deportate, destinate singolarmente, sistematicamente all’annientamento. E allora tutti coloro che sono rimasti, sopravvissuti, con la loro voce parlano contro chi ha concepito l’idea dell’olocausto, dello sterminio.
Con questa consapevolezza, anni fa, l’ANED ha iniziato una ricerca relativa alla deportazione femminile anche per la coscienza, la consapevolezza, l’evidenza che le donne tra le sopravvissute sono coloro che hanno parlato meno rispetto agli uomini. Si è cercato di chiamare le donne tanto della deportazione ebraica e razziale, in generale, che politica. Si è elevato un coro di voci sommerse che è stato difficilissimo, ma molto importante ascoltare.
Raccogliendo e ascoltando le testimonianze si vivono il passato, gli eventi, le vicende: la memoria. Questo è il passaggio del testimone, senza soluzioni di continuità, che si accompagna ad un altro percorso a sua volta senza soluzioni di continuità, perché processo etico di scelta tra il Bene e il Male…Dal Deuteronomio :”Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione: scegli dunque la via!”. Questa scelta etica tra il Bene ed il Male, che attraversa sempre la nostra quotidianità, ai tempi del nazifascismo fu particolarmente urgente, imminente, impellente e tragica. Nazismo e fascismo sono stati fenomeni storici, politici, sociali, economici che vanno indagati nella loro specificità. Ma anche un piano etico va ricordato “Una mano abominevole è stata alzata contro l’umanità; un colpo diretto contro la colonna portante dei Dieci Comandamenti” che parlano di Dio e dell’uomo e invitano ad amare Dio, amando l’uomo. Solo in questo modo, con l’amore per il prossimo, la linfa dei Dieci Comandamenti, si ama Dio. Contro l’amore per il prossimo, contro il volto dell’altro, come direbbe Levinas, si è avventato il nazismo, il delirio di pretendere di sapere chi era degno di vivere o meno e di volerlo eliminare: per questo fu necessario scegliere allora.
Il periodo di revisionismo, è spesso un negazionismo strisciante. La scelta allora era radicale, coinvolgeva l’individuo che la compiva e spesso le famiglie che lo circondavano e tra le testimonianze molte sono le voci di donne deportate perché sorelle, compagne, mogli, figlie di chi scelse e si schierò, e combattè contro il nazifascismo. Il ricordo dei sopravvissuti è spesso scandito da queste tappe: la cattura, il trasporto, l’arrivo nei campi, e sottocampi, dove si veniva tatuati e numerati, momento che ricorre spesso nelle testimonianze perché ciascuno si sentiva deprivato del proprio nome, unico, irripetibile, irriducibile… in un flebile ricordo tatuato sulla mano sinistra. La solitudine di chi tornò fu spesso estrema e lancinante…
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